«SCOMPARSA A 107 ANNI, MESCOLAVA RACCONTI E LE MAGIE DELLA PASTA»
Nicola Lagioia, Premio Strega, ci parla della sua prima scuola di scrittura, nella casa materna a Capurso: «Le donne facevano le orecchiette e combattevano la noia»
La prima scuola di scrittura creativa che Nicola Lagioia ha frequentato era a Capurso, provincia di Bari: la casa dei nonni materni. Antonietta Ricciardi non aveva l’educazione scolastica del nipote, ma gli ha trasmesso una passione arcaica per il racconto orale, grazie alle amiche comari. Questa estate, nonna Antonietta è mancata. Aveva 107 anni. Abbiamo chiesto a Lagioia di parlarci di lei.
Cosa ha significato sua nonna?
«Era nata nel 1916, veniva da una famiglia di coltivatori diretti, che forse erano stati mezzadri qualche generazione prima. Abitava a Capurso, dove ho trascorso l’infanzia. Avere un passo in quel mondo, e un altro in una città moderna com’era Bari già dagli anni Settanta, quando io ero un bambino, ha significato per me vivere contemporaneamente in due secoli. Forse in più di due secoli, dal momento che la civiltà contadina conservava elementi perfino precristiani, insieme ad altri invece cristianissimi. I racconti delle donne come mia nonna, sedute intorno a una grande tavolata a fare pasta fresca erano letteratura allo stato puro, nel senso che quelle donne erano abilissime narratrici, e allo stesso tempo era letteratura allo stato iniziale, dal momento che l’arte del racconto attraverso le parole nasce orale. Quei racconti erano ancorati ai secoli precedenti, eppure era sempre “la prima volta”, raccontavano con una freschezza e una potenza sbalorditive». Cosa la colpiva di quelle donne?
«Intanto per me il movimento del dito era incredibile, era come quando giochi a Subbuteo, che tiri l’omino, ma ne usciva una orecchietta perfetta. Era un’attività noiosa e così, lavorando, si raccontavano storie. C’era gossip, storie di paese e storie soprannatura
li, tipo “stanotte mi sono svegliata e ho sentito un rumore e sono andata nel corridoio e c’era commare Francesca”, che però era morta dieci anni prima, e infatti la descrivevano con gli occhi di fuoco. Un’altra raccontava che aveva comprato dal pescivendolo un pesce e dentro, dopo averlo sviscerato, c’era un santino con il messaggio di un defunto...».
C’è un ricordo vivido da condividere?
«Mia nonna era antica, ma aveva una sua vanità, le piacevano i bei vestiti, e poi aveva un ottimo eloquio. Possedeva nelle mani una certa praticità con la morte — penso all’uccisione dei piccoli animali d’allevamento, come si faceva allora — ma al tempo stesso, passando dalle mani alla bocca, non le ho mai sentito pronunciare una parolaccia. C’era un senso del decoro abbacinante, in quel mondo lì. Erano tra l’altro, lei e mio nonno, elegantissimi con niente, un vestito a righe, una camicietta, una giacca. Non si pensi però che il mondo preindustriale fosse quel paradiso di cui ogni tanto rischiava di parlare Pasolini. Era un mondo durissimo, specie per le donne. Mia nonna si sentì emancipata dalla schiavitù il giorno in cui in casa sua arrivò una lavatrice. Curiosamente, a novant’anni poi la lavatrice l’ha rottamata. Si annoiava a veder lavare i panni, riprese a “farli” a mano. Ricordo anche che mia nonna e mio nonno avevano nella parte superiore dell’armadio, sin dagli Settanta, una valigia chiusa con dentro gli abiti con cui avrebbero voluto essere seppelliti. Per dire la praticità con la morte».
Questa estate sono morte sua nonna e Michela Murgia. Come ha vissuto queste due assenze?
«Sono due dolori diversi. Mia nonna ha avuto una vita lunghissima, perderla significa sentirsi mancare il terreno sotto i piedi ma è nell’ordine delle cose. Mi
restano moltissimi ricordi, moltissime chiacchierate. Con Murgia è diverso. Benché Michela avesse parlato pubblicamente della sua malattia, mi sono reso conto che non ero pronto a gestire emotivamente la notizia della sua morte. Mi sembra incredibile non poterla più vedere». Negli anni del Covid e della bulimia di social, come è cambiato il nostro rapporto con la morte?
«A parte i funerali, il mondo laico ha perduto i dispositivi rituali attraverso cui dare senso ai momenti importanti della vita, che poi sono sempre momenti di passaggio. Il rituale non può che essere collettivo, la parola “comunità” senza rituale ha poco senso. Nei rituali c’è sempre una dimensione se non religiosa trascendente. È quella che ci manca, senza di quella alla lunga siamo perduti». Come immagina le persone care quando non sono più tra noi?
«I gesti d’amore di cui siamo stati capaci intaccano l’invisibile intorno a noi, creano un significato che sopravvive alla fisicità di chi quell’amore è stato capace di scambiarlo. Nulla va distrutto. Se l’umanità si estinguesse domani, resterebbe l’amore di cui è stata capace, in una particolare forma a cui Simone Weil e Emily
Dickinson hanno fatto accenno».
Quali erano i ricordi della sua vita o i commenti ai fatti storici che le sono restati più impressi?
«Ricordava perfettamente le canzoni del Ventennio, si divertiva a cantarle, ma lei e mio nonno avevano le idee chiarissime sul fascismo: il fascismo aveva prima tradito e poi distrutto l’Italia, l’aveva gettata nell’onta delle leggi razziali e nella follia della guerra. Come quasi tutti i coltivatori diretti, mia nonna era democristiana, con pochissima simpatia per il partito comunista. Lei e mio nonno detestarono Berlusconi, perché li costrinse a votare l’Ulivo. Detestavano l’Ulivo, ma l’alleanza di Berlusconi con i post fascisti, e una certa disinvoltura di Berlusconi stesso, gli sembrava una prefigurazione dell’antistato. Trent’anni prima, mia nonna aveva avuto in sospetto la nascita del pop, temeva Gianni Morandi, non voleva che mia madre, che invece era pazza di Gianni Morandi, andasse ai suoi concerti; ma poi sposò l’identità italiana per come andava sviluppandosi nella seconda metà del Novecento, un’identità a cui contribuiva la tv: Pippo Baudo, Mike Bongiorno, Raffaella Carrà, infine anche Fabio Fazio, che mia nonna seguiva sempre; le arti, Fellini, Mina, Monica Vitti, Anna Magnani, Mastroianni, Sophia Loren; e la politica, sopra tutti De Gasperi e Moro. Ce l’avevamo quasi fatta, a diventare un popolo». Qual è l’insegnamento che ha tratto dal tempo passato con lei?
«Una parte di quell’insegnamento è impraticabile per me. Mia nonna è arrivata a 107 anni rimanendo sempre nel suo paese, dopo essersi spostata da ragazza da Capurso a Triggiano, pochi chilometri, conducendo una vita di una regolarità totale. Pasti semplici e frugali».
Una frase tipica di sua nonna?
«Mantieniti forte».