Corriere della Sera - Sette

LETTERA DI NATALE VOGLIAMO PIÙ SICUREZZA O PIÙ LIBERTÀ?

- DI BARBARA STEFANELLI

Nelle immagini raccolte dai primi soccorrito­ri israeliani, il 7 ottobre, i bambini uccisi dai terroristi di Hamas sono in pigiama. Stesi per terra, i volti pixellati, indossano per l’ultima volta la tutina con la faccia di Topolino sul petto o la camicia da notte estiva con le farfalle blu. Su ciascuno, un cerotto rosa per l’identifica­zione e la conta finale. Come per le ragazze stuprate, una parte consistent­e e robusta di mondo si è subito predispost­a a rimuovere il massacro, compreso quello dei più deboli: non ha lasciato trascorrer­e neppure una giornata intera e ha cominciato a dubitare, soppesare, divagare tra contesti.

Dei tanti video che da settimane raccontano la catastrofe di Gaza, travolta dall’invasione, ce n’è uno che sembrava poter calmare gli sguardi. Si vede una bimba palestines­e, scalza: probabilme­nte si è disorienta­ta durante la fuga dei civili spinti a forza verso Sud ,ha cercato un rifugio per la notte e ha finito per sdraiarsi davanti a una tenda dell’esercito israeliano, sul tappetino dai disegni arabeggian­ti. I soldati l’hanno trovata al risveglio, il filmato li mostra mentre le medicano e bendano i piedi insanguina­ti, scacciano via le mosche, provano a non spaventarl­a. Spaventosi sono i commenti sotto. Utenti israeliani: «A parti invertite, l’avrebbero ammazzata perché ebrea, come è successo nei kibbutz». Utenti non israeliani: «Mostrateci la fine del video, nella scena successiva sicurament­e le sparano».

Ci sentiamo forse tutti sovraespos­ti a crisi continue e senza soluzione: approdiamo a questo Natale così stanchi – sonnambuli attraverso paesaggi globali slabbrati – che neppure le storie dei piccoli riescono a sfilarci dai circuiti chiusi e prevedibil­i delle nostre reazioni. Risse o rimozioni, rimozioni e risse. Come avessimo sempre fretta di inveire attorno ai fatti oppure di svenire prima di dover ragionare.

Ora l’obiezione è facile: ma se anche ci imponessim­o di rallentare per osservare, ascoltare le voci, accostare le mappe, che cosa cambierebb­e? In che modo, credenti o non credenti, potremmo santificar­e la vita, riconoscer­ne la sacralità in mezzo allo scompiglio rigenerato­re e allo stupore di ogni nascita? Se anche ci fermassimo per una notte, noi, qui, quale mutamento potremmo mai indurre, quale breccia in muri cementati da decenni e secoli, da ideologie antiche come le torri dei fondamenta­lismi e giovani come il reticolo dei social network che avvolge le identità nel filo spinato?

Il nostro sguardo non cambierà il mondo, certo, non spegnerà i roghi dell’odio o abbasserà la marea del dolore. Ma uno sguardo che prediliga la consapevol­ezza e l’empatia cambia, di sicuro, noi. E quindi, prima o poi, il mondo. Alla fine, la nostra esistenza prende – e riprende – forma riempiendo­si delle persone e delle cose alle quali prestiamo attenzione. Tutto dipende dalla nostra libertà interiore, da quanto siamo disposti a rischiare rispetto alla tentazione di azzerare l’incertezza.

Suggerisce Chandra Candiani, autrice e maestra di meditazion­e, ne Il silenzio è cosa viva: «Per essere nella presenza devo coltivare a lungo uno sguardo sull’io, anziché guardare tutto dai suoi occhi». Invece di squadrare gli altri “fuori” muovendo dalla rabbia, dall’eccitazion­e o dalla tristezza, «guardo direttamen­te la rabbia, l’eccitazion­e e la tristezza».

Le guardo e riconosco: raccolgo i pezzi per ricomporli e tentare un senso.

CI SENTIAMO SOVRAESPOS­TI ALLE CRISI. ANCHE LE IMMAGINI DEI BIMBI GENERANO SOLO LITI O RIMOZIONI. MA IL NOSTRO SGUARDO CONTA

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