«LE MONARCHIE RESISTERANNO (MERITO ANCHE DI NAPOLEONE)»
Lo storico Cardini: «Lui riuscì a laicizzare la politica senza rompere completamente con la tradizione cristiana. Ricordate Sean Connery? Era un convinto nazionalista scozzese ma si dichiarava fedele alla regina Elisabetta»
Oggi le monarchie non possono più confidare nella credenza che il potere dei re derivi da Dio, ma Franco Cardini, storico medievista, ritiene che possano reggere anche di fronte alle sfide del XXI secolo. «Le dinastie che sono sopravvissute alle scosse rivoluzionarie e alle guerre mondiali» sostiene «mi sembrano abbastanza solide, perché in genere possono contare su un diffuso affetto popolare e anche su una residua, sia pur vaga, aura di sacralità».
Come nasce l’idea che l’autorità dei sovrani discenda da un diritto divino?
«Deriva dal modo in cui si afferma il cristianesimo nell’Impero romano, senza rovesciare le istituzioni, ma in un reciproco adattamento, per cui viene mantenuta, sia pure in forma differente, la considerazione di un rapporto privilegiato tra il sovrano e la sfera del sovrannaturale. Viene superato il culto rivolto alla persona dell’imperatore, che dopo la morte era assunto per apoteosi tra le divinità pagane, ma s’introduce il rito cristianissimo, perché biblico, dell’unzione, che si ricollega alla tradizione dei re d’Israele. In questo modo l’imperatore cristiano diventa una sorta di rappresentante di Dio in Terra».
Ma poi nel Medioevo sorgono i diversi regni e tutti i monarchi pretendono di regnare per diritto divino.
«Nell’Europa occidentale si verifica una sorta di gemmazione. Si afferma il Sacro Romano Impero, che si riallaccia indirettamente alla successione dei Cesari, ma anche sul piano religioso alla tradizione biblica. Ed è per molti versi l’autorità imperiale che legittima gli altri monarchi. Il regno di Francia è una filiazione dell’Impero di Carlo Magno. Il re d’Inghilterra è un vassallo del re di Francia. Ancora nel XII secolo l’imperatore Federico Barbarossa chiama gli altri monarchi europei reguli provinciarum, piccoli re delle province». Quando termina questo stato di subalternità?
«Una svolta importante si verifica con Filippo IV di Francia, detto il Bello, che regna tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo. I giuristi di corte affermano allora che il re non riconosce alcuna autorità al di sopra di sé e dispone quindi di un potere assoluto sul suo territorio».
È la rivoluzione francese che supera questa idea dell’investitura divina?
«Sì, ma non bisogna dimenticare che poi sopravviene Napoleone, il quale è un laicizzatore della politica, ma non rompe completamente con la tradizione cristiana. Fa benedire la corona imperiale prima di porsela in capo. E dice “Dio me l’ha data, guai a chi la tocca”, attribuendo dunque una derivazione divina al suo potere».
Insomma, la sovranità regale si collega sempre a un fattore religioso.
«Anche i Savoia, che pure avevano detronizzato il papa dallo Stato pontificio, si proclamavano re “per grazia di Dio e per volontà della nazione”. Tuttora il re d’Inghilterra è il capo della Chiesa anglicana. Persino nelle monarchie dei Paesi scandinavi si è salvato un residuo religioso connaturato all’idea della regalità. E l’imperatore giapponese resta per molti versi una figura sacrale, nonostante abbia rinunciato all’attributo dell’origine divina».
Che futuro può avere l’istituto monarchico, ormai sostanzialmente spogliato della sua discendenza divina?
«Posso essere smentito, ma io credo che nel complesso abbia retto all’urto della modernità e non sia destinato a sparire, di certo non in tempi brevi. In Gran Bretagna per esempio l’affezione popolare verso la monarchia mi sembra sempre forte. Diverso forse è il caso della Spagna, dove esistono forti tendenze repubblicane. Quanto ai Paesi nordici, allorché mi capita di visitarli, noto che anche nelle case private è frequente vedere appesi ai muri i ritratti dei sovrani».
Dove risiede la forza della monarchia?
«Credo che sia percepita generalmente come una garanzia di continuità dello Stato, che tiene al riparo da cambiamento troppo bruschi. Del resto alcuni argomenti tradizionali contro l’istituto monarchico si sono indeboliti. Il rischio che salga al trono un individuo inadeguato non è poi così grave in un regime costituzionale dotato di salde istituzioni. E anche i costi non sono troppo onerosi. Ho letto che quelli della corte britannica sono paragonabili, se non inferiori a quelli del nostro apparato quirinalizio».
Il fatto che i mass media ci raccontino tutto dei reali, a partire dalle loro debolezze umane, non è destabilizzante?
«Ho l’impressione che questo dubbio derivi da un residuo di moralismo ormai fuori tempo. Nell’attuale società dell’immagine la visibilità finisce per essere un valore in sé, anche se finiscono in mostra comportamenti che si possono considerare poco dignitosi. Il fatto stesso di apparire moltiplica la popolarità dei personaggi. Io pensavo per esempio che in Gran Bretagna Carlo III si trovasse in difficoltà, che potesse apparire goffo e ridicolo nel difficile compito di succedere a una sovrana molto stimata come Elisabetta II. Per giunta il suo nome non porta molta fortuna visto che Carlo I fu decapitato nel 1649 e anche Carlo II ebbe un regno piuttosto tempestoso. Ma direi che finora se l’è cavata abbastanza bene, si è adattato al ruolo, anche se non si può dire che brilli di luce propria».
La Spagna e la Gran Bretagna sono interessate da tendenze secessioniste. Il fatto che siano monarchie può aiutarle a evitare spaccature traumatiche?
«Nel complesso credo di sì. Ricordo per esempio che l’attore Sean Connery, convinto nazionalista scozzese, si diceva fedele a Elisabetta II in quanto regina anche di Scozia. Regno Unito e Spagna sono Stati che discendono da grandi imperi, ma le situazioni mi paiono diverse. In Gran Bretagna le spinte centrifughe della Scozia puntano soprattutto a superare il predominio di Londra, ma salvando l’istituzione monarchica. Invece in Spagna l’indipendentismo catalano e quello basco hanno una forte caratterizzazione repubblicana, memore della guerra civile combattuta fra il 1936 e il 1939».
Quindi Madrid rischia di più?
«Rispetto alla Gran Bretagna certamente sì, anche se bisogna riconoscere che il re Juan Carlos, nella fase di transizione dalla dittatura alla democrazia, si è mosso in modo accorto, favorendo il riconoscimento delle autonomie e quindi la regionalizzazione degli indipendentismi. Il superamento del rigido centralismo imposto da Francisco Franco ha legittimato la monarchia anche agli occhi di chi aspirava alla secessione».
Però la sinistra spagnola ha tradizionalmente una posizione repubblicana.
«È vero, ma Juan Carlos e Felipe VI sono stati abili nell’assistere senza reagire all’antifranchismo postumo che si è manifestato da alcuni anni a questa parte, con varie iniziative volte a cancellare i residui simbolici della dittatura e a rievocarne i crimini. Questo silenzio dei Borbone ha deluso molti a destra, che lo giudicano un segno d’ingratitudine verso Franco, che in fondo ha restaurato la monarchia spagnola, ma è stato di converso apprezzato a sinistra».
E il fatto che sul trono di Spagna salirà una donna può creare dei problemi?
«Direi di no. La società conserva alcuni residui di maschilismo, ma le donne hanno fatto molti passi avanti. E oserei dire che in Spagna il femminismo non ha sacrificato la femminilità. Quindi credo che il Paese sia sicuramente maturo per un passo del genere».