GUIDA SEMPLICE AL PIANO CHE PUÒ SALVARE L’UNIONE (E L’ITALIA)
Risorse, progetti, rischi. Si tratta di 194,4 miliardi che l’Unione ci dà a fondo perduto, a cui si aggiungono altri 30,6 miliardi di risorse nazionali. Un «debito buono», come l’ha definito Mario Draghi, ma erogato a una condizione: gli obiettivi devono
Èstato paragonato al Piano Marshall, che contribuì in modo decisivo alla ricostruzione dei Paesi europei ridotti in macerie dalla Seconda Guerra Mondiale. Ci sono molte differenze, naturalmente, ma il Pnrr, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che rappresenta le misure e le riforme che l’Italia ha deciso di adottare per ottenere i finanziamenti e gli aiuti a fondo perduto dell’Europa, rappresenta certamente lo sforzo più grande mai affrontato in un periodo definito e limitato (scade nel giugno 2026) da ministeri, regioni, comuni, imprese, università, tribunali, ospedali. Siamo già a metà del calendario e tutti (non proprio tutti, per la verità) sono consapevoli che bisogna correre. Il motivo? I fondi dell’Unione Europea vengono versati all’Italia solo a condizione che le riforme siano realizzate e che gli investimenti effettuati e collaudati entro la scadenza. Se così non fosse, gli impegni finanziari ricadrebbero sulle spalle del bilancio pubblico nazionale. Un cambio di prospettiva importante, a cui forse la pubblica amministrazione non era del tutto preparata. Una vera e propria rivoluzione, che mette al centro un altro elemento: il monitoraggio continuo dei risultati. Gli assegni vengono staccati in funzione dei chilometri di nuove linee ferroviarie, di cavi a fibra ottica posati, di asili nido aperti. Ed è forse questa l’eredità più importante che dovrebbe restare dopo la conclusione del Piano. Un aspetto che non va dimenticato è che 150 miliardi sono risorse prese in prestito, che andranno restituite.
LE RISORSE
I fondi messi in campo sono di due tipi, i prestiti e i cosiddetti grants, quelli che in un’espressione non proprio felice si definiscono aiuti a “fondo perduto”. Si tratta di 194,4 miliardi a cui si aggiungono altri 30,6 miliardi di risorse nazionali. Sono fondi che rientrano nel piano generale che l’Unione Europea ha messo in campo a partire dal 2020, un maxi-progetto di rilancio dell’economia scattato in piena pandemia che in totale ha mobilitato circa 1000 miliardi di euro. E forse bisogna partire da lì, dall’agosto di tre anni fa per capire quante difficoltà ci siano nell’attuazione del Pnrr: la pubblica amministrazione italiana negli anni dell’austerità si era un po’ disabituata a progettare, a ragionare sugli investimenti necessari per la crescita del Paese e soprattutto nella fase iniziale ha dovuto velocemente presentare progetti che in qualche caso si sono rivelati inattuabili. L’ultimo negoziato delle scorse settimane con l’Europa ha portato ad alcune correzioni: ci sono circa 12,4 miliardi in più per le imprese ma ci sono riduzioni per i comuni per circa 6 miliardi. La quota indirizzata verso gli obiettivi climatici è salita dal 37 al 39,5%, soprattutto per i progetti di efficientamento energetico e
di graduale conversione dalla generazione fossile, a cominciare dal petrolio, alle fonti rinnovabili. Un aspetto che viene sottovalutato è che gran parte di queste risorse andranno restituite a Bruxelles. Il vantaggio? Se l’Italia avesse dovuto raccogliere sul mercato finanziario questi fondi, soprattutto ora che i tassi di interesse sono saliti ben sopra il 4%, avrebbe dovuto indebitarsi a condizioni molto più onerose di quelle richieste dalla Ue. Questo rappresenta “debito buono” per usare le parole dell’ex premier Mario Draghi, ma ad una condizione: raggiungere gli obiettivi. E la dimostrazione è avvenuta con il ritardo nel pagamento da parte dell’Ue di alcune tranche del piano. Un avvertimento sul fatto che i mille obiettivi previsti vanno centrati. Sono due i capitoli che prevedono la maggior concentrazione dei fondi, la transizione ambientale e quella digitale, verso la quale vengono indirizzati il 20 per cento dei soldi. L’ultimo richiamo è arrivato dall’Ocse che da un lato ha fatto i complimenti al Paese per «i notevoli progressi in merito alle riforme strutturali». Dall’altro però ha messo in guardia sui tempi: «La spesa dei fondi del Next Generation Eu è in ritardo rispetto alle tempistiche originariamente stabilite, il che comporta principalmente ritardi nell’attuazione dei progetti di investimenti pubblici». Bisogna scegliere: «In via prioritaria sarebbe necessario riassegnare rapidamente i processi di attuazione alle amministrazioni pubbliche dotate delle massime capacità, concentrarsi su progetti infrastrutturali che favoriscono al crescita e abbandonare i progetti impraticabili».
I PROGETTI
Il piano prevede sei missioni: digitalizzazione, competitività e turismo; rivoluzione verde e transizione ecologica; infrastrutture per una mobilità sostenibile; istruzione e ricerca; coesione e inclusione; salute. Molte sono in realtà trasversali. Per il digitale, ad esempio si va dal fascicolo sanitario elettronico, nel quale ciascun cittadino potrebbe avere tutta la sua storia sanitaria, in modo che le informazioni che ci riguardano non trovino “muri” informativi tra una struttura sanitaria e un’altra. La parola magica è interoperabilità. Uno dei paradossi più difficili da comprendere in un tempo di big data. Un passaggio centrale riguarda naturalmente il 5G che ancora in molti pensano essere un telefonino più veloce e che invece sarà la condizione per rendere possibili le operazioni in remoto e un graduale percorso verso la guida autonoma, solo per fare due esempi. Ci sono poi tutti gli interventi che riguardano il welfare e la coesione sociale, uno dei passaggi politici più rilevanti. La creazione di asili nido è stato il primo banco di prova della difficoltà di mettere a punto le gare. Il motivo? Una delle questioni riguarda questo punto: una volta costruito l’asilo, chi si occuperà della gestione? Secondo un’indagine svolta da The European House Ambrosetti il 45% delle imprese ha difficoltà a partecipare ai bandi per questioni tecniche, per il 30% pesa la complessità nell’interpretazione del bando, per il 18% la tempistica per la candidatura. Il numero totale dei progetti legato al Pnrr è di oltre 170 mila opere e interventi da realizzare. Si va dai parchi agrisolari agli interventi contro il dissesto idrogeologico, dalle nuove tratte ferroviarie dell’Alta velocità ala transizione 4.0 delle imprese. Con circa 24 miliardi di opere da realizzare Rfi (Rete ferroviaria Italiana) è il primo assegnatario di risorse. E sono proprio le infrastrutture ad avere una parte rilevante nel Pnrr. Nell’ultimo round di negoziati con la Commissione c’è stata un’aggiunta di 2,7 miliardi per il Repowering Eu, il programma legato all’energia.
LE RIFORME
C’è un meccanismo nuovo che va approfondito. Tutta la macchina del Pnrr si fonda su milestone (pietre miliari) e target (obiettivi). Dopo l’ultima rinegoziazione l’Italia si è impegnata a realizzare 7 riforme in più, portandole a 66. Rappresentano il punto centrale per poter ottenere le risorse. Un elenco che va dalla riforma della concorrenza, all’accelerazione dei tempi della giustizia, alla digitalizzazione della pubblica amministrazione, alla semplificazione. Un passaggio centrale è quello legato alla coesione. E su questo nell’arco dei sei anni il numero delle riforme è destinato a lasciare il posto ai target, che sono gli obiettivi misurabili. Dal tempo effettivo in cui si svolge un processo civile ai chilometri di binari realizzati. Sulla base di questi due parametri l’Europa eroga le risorse. Nel 2026 i milestone saranno solo 24 mentre gli obiettivi diventeranno 208. Prendiamo il pubblico impiego: entro il 2024 si dovrà realizzare semplificazione di 200 procedure critiche verso cittadini e imprese, ma tra due anni l’attuazione dovrà triplicare e arrivare a 600 procedure. Per la giustizia, il fattore tempo sarà decisivo: entro il 2024 il numero delle cause pendenti dovrà calare del 90% mentre il calo dovrà essere del 25% per quelle penali. Uno dei cantieri ha riguardato il progetto Uni4justice del Tribunale di Venezia con l’Università Ca’ Foscari, coordinato dal professor Stefano Campostrini. Ricercatori che hanno lavorato fianco a fianco dei magistrati e dei cancellieri per studiare come velocizzare e rendere più efficiente il sistema di lavoro. Misurare, ecco la grande sfida della pubblica amministrazione. E forse anche l’eredità più importante che il Pnrr e il monitoraggio europeo potrà lasciare anche dopo il 2026.