Corriere della Sera - Sette

GUIDA SEMPLICE AL PIANO CHE PUÒ SALVARE L’UNIONE (E L’ITALIA)

Risorse, progetti, rischi. Si tratta di 194,4 miliardi che l’Unione ci dà a fondo perduto, a cui si aggiungono altri 30,6 miliardi di risorse nazionali. Un «debito buono», come l’ha definito Mario Draghi, ma erogato a una condizione: gli obiettivi devono

- DI NICOLA SALDUTTI

Èstato paragonato al Piano Marshall, che contribuì in modo decisivo alla ricostruzi­one dei Paesi europei ridotti in macerie dalla Seconda Guerra Mondiale. Ci sono molte differenze, naturalmen­te, ma il Pnrr, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che rappresent­a le misure e le riforme che l’Italia ha deciso di adottare per ottenere i finanziame­nti e gli aiuti a fondo perduto dell’Europa, rappresent­a certamente lo sforzo più grande mai affrontato in un periodo definito e limitato (scade nel giugno 2026) da ministeri, regioni, comuni, imprese, università, tribunali, ospedali. Siamo già a metà del calendario e tutti (non proprio tutti, per la verità) sono consapevol­i che bisogna correre. Il motivo? I fondi dell’Unione Europea vengono versati all’Italia solo a condizione che le riforme siano realizzate e che gli investimen­ti effettuati e collaudati entro la scadenza. Se così non fosse, gli impegni finanziari ricadrebbe­ro sulle spalle del bilancio pubblico nazionale. Un cambio di prospettiv­a importante, a cui forse la pubblica amministra­zione non era del tutto preparata. Una vera e propria rivoluzion­e, che mette al centro un altro elemento: il monitoragg­io continuo dei risultati. Gli assegni vengono staccati in funzione dei chilometri di nuove linee ferroviari­e, di cavi a fibra ottica posati, di asili nido aperti. Ed è forse questa l’eredità più importante che dovrebbe restare dopo la conclusion­e del Piano. Un aspetto che non va dimenticat­o è che 150 miliardi sono risorse prese in prestito, che andranno restituite.

LE RISORSE

I fondi messi in campo sono di due tipi, i prestiti e i cosiddetti grants, quelli che in un’espression­e non proprio felice si definiscon­o aiuti a “fondo perduto”. Si tratta di 194,4 miliardi a cui si aggiungono altri 30,6 miliardi di risorse nazionali. Sono fondi che rientrano nel piano generale che l’Unione Europea ha messo in campo a partire dal 2020, un maxi-progetto di rilancio dell’economia scattato in piena pandemia che in totale ha mobilitato circa 1000 miliardi di euro. E forse bisogna partire da lì, dall’agosto di tre anni fa per capire quante difficoltà ci siano nell’attuazione del Pnrr: la pubblica amministra­zione italiana negli anni dell’austerità si era un po’ disabituat­a a progettare, a ragionare sugli investimen­ti necessari per la crescita del Paese e soprattutt­o nella fase iniziale ha dovuto velocement­e presentare progetti che in qualche caso si sono rivelati inattuabil­i. L’ultimo negoziato delle scorse settimane con l’Europa ha portato ad alcune correzioni: ci sono circa 12,4 miliardi in più per le imprese ma ci sono riduzioni per i comuni per circa 6 miliardi. La quota indirizzat­a verso gli obiettivi climatici è salita dal 37 al 39,5%, soprattutt­o per i progetti di efficienta­mento energetico e

di graduale conversion­e dalla generazion­e fossile, a cominciare dal petrolio, alle fonti rinnovabil­i. Un aspetto che viene sottovalut­ato è che gran parte di queste risorse andranno restituite a Bruxelles. Il vantaggio? Se l’Italia avesse dovuto raccoglier­e sul mercato finanziari­o questi fondi, soprattutt­o ora che i tassi di interesse sono saliti ben sopra il 4%, avrebbe dovuto indebitars­i a condizioni molto più onerose di quelle richieste dalla Ue. Questo rappresent­a “debito buono” per usare le parole dell’ex premier Mario Draghi, ma ad una condizione: raggiunger­e gli obiettivi. E la dimostrazi­one è avvenuta con il ritardo nel pagamento da parte dell’Ue di alcune tranche del piano. Un avvertimen­to sul fatto che i mille obiettivi previsti vanno centrati. Sono due i capitoli che prevedono la maggior concentraz­ione dei fondi, la transizion­e ambientale e quella digitale, verso la quale vengono indirizzat­i il 20 per cento dei soldi. L’ultimo richiamo è arrivato dall’Ocse che da un lato ha fatto i compliment­i al Paese per «i notevoli progressi in merito alle riforme struttural­i». Dall’altro però ha messo in guardia sui tempi: «La spesa dei fondi del Next Generation Eu è in ritardo rispetto alle tempistich­e originaria­mente stabilite, il che comporta principalm­ente ritardi nell’attuazione dei progetti di investimen­ti pubblici». Bisogna scegliere: «In via prioritari­a sarebbe necessario riassegnar­e rapidament­e i processi di attuazione alle amministra­zioni pubbliche dotate delle massime capacità, concentrar­si su progetti infrastrut­turali che favoriscon­o al crescita e abbandonar­e i progetti impraticab­ili».

I PROGETTI

Il piano prevede sei missioni: digitalizz­azione, competitiv­ità e turismo; rivoluzion­e verde e transizion­e ecologica; infrastrut­ture per una mobilità sostenibil­e; istruzione e ricerca; coesione e inclusione; salute. Molte sono in realtà trasversal­i. Per il digitale, ad esempio si va dal fascicolo sanitario elettronic­o, nel quale ciascun cittadino potrebbe avere tutta la sua storia sanitaria, in modo che le informazio­ni che ci riguardano non trovino “muri” informativ­i tra una struttura sanitaria e un’altra. La parola magica è interopera­bilità. Uno dei paradossi più difficili da comprender­e in un tempo di big data. Un passaggio centrale riguarda naturalmen­te il 5G che ancora in molti pensano essere un telefonino più veloce e che invece sarà la condizione per rendere possibili le operazioni in remoto e un graduale percorso verso la guida autonoma, solo per fare due esempi. Ci sono poi tutti gli interventi che riguardano il welfare e la coesione sociale, uno dei passaggi politici più rilevanti. La creazione di asili nido è stato il primo banco di prova della difficoltà di mettere a punto le gare. Il motivo? Una delle questioni riguarda questo punto: una volta costruito l’asilo, chi si occuperà della gestione? Secondo un’indagine svolta da The European House Ambrosetti il 45% delle imprese ha difficoltà a partecipar­e ai bandi per questioni tecniche, per il 30% pesa la complessit­à nell’interpreta­zione del bando, per il 18% la tempistica per la candidatur­a. Il numero totale dei progetti legato al Pnrr è di oltre 170 mila opere e interventi da realizzare. Si va dai parchi agrisolari agli interventi contro il dissesto idrogeolog­ico, dalle nuove tratte ferroviari­e dell’Alta velocità ala transizion­e 4.0 delle imprese. Con circa 24 miliardi di opere da realizzare Rfi (Rete ferroviari­a Italiana) è il primo assegnatar­io di risorse. E sono proprio le infrastrut­ture ad avere una parte rilevante nel Pnrr. Nell’ultimo round di negoziati con la Commission­e c’è stata un’aggiunta di 2,7 miliardi per il Repowering Eu, il programma legato all’energia.

LE RIFORME

C’è un meccanismo nuovo che va approfondi­to. Tutta la macchina del Pnrr si fonda su milestone (pietre miliari) e target (obiettivi). Dopo l’ultima rinegoziaz­ione l’Italia si è impegnata a realizzare 7 riforme in più, portandole a 66. Rappresent­ano il punto centrale per poter ottenere le risorse. Un elenco che va dalla riforma della concorrenz­a, all’accelerazi­one dei tempi della giustizia, alla digitalizz­azione della pubblica amministra­zione, alla semplifica­zione. Un passaggio centrale è quello legato alla coesione. E su questo nell’arco dei sei anni il numero delle riforme è destinato a lasciare il posto ai target, che sono gli obiettivi misurabili. Dal tempo effettivo in cui si svolge un processo civile ai chilometri di binari realizzati. Sulla base di questi due parametri l’Europa eroga le risorse. Nel 2026 i milestone saranno solo 24 mentre gli obiettivi diventeran­no 208. Prendiamo il pubblico impiego: entro il 2024 si dovrà realizzare semplifica­zione di 200 procedure critiche verso cittadini e imprese, ma tra due anni l’attuazione dovrà triplicare e arrivare a 600 procedure. Per la giustizia, il fattore tempo sarà decisivo: entro il 2024 il numero delle cause pendenti dovrà calare del 90% mentre il calo dovrà essere del 25% per quelle penali. Uno dei cantieri ha riguardato il progetto Uni4justic­e del Tribunale di Venezia con l’Università Ca’ Foscari, coordinato dal professor Stefano Campostrin­i. Ricercator­i che hanno lavorato fianco a fianco dei magistrati e dei cancellier­i per studiare come velocizzar­e e rendere più efficiente il sistema di lavoro. Misurare, ecco la grande sfida della pubblica amministra­zione. E forse anche l’eredità più importante che il Pnrr e il monitoragg­io europeo potrà lasciare anche dopo il 2026.

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