Corriere della Sera - Sette

LO SO, IL PRESEPE NON VA PIÙ MA ERA BELLO QUEL 25 DICEMBRE IN STILE CASA CUPIELLO

- DI ANTONIO POLITO apolito@rcs.it

Quasi niente del Natale di oggi assomiglia al Natale di quand’ero bambino. Ed è sorprenden­te costatare come siano in realtà recenti e mutevoli, spesso nel solo arco di una vita, quelle che siamo soliti chiamare «tradizioni», e cioè comportame­nti, riti e usanze che si immaginano provenire dalla notte dei tempi.

Per esempio: nei miei ricordi d’infanzia, parliamo di sessant’anni fa, non c’è traccia dell’albero di Natale. Meno che mai di un abete. Anche di luci e luminarie non ho memoria, nella cittadina a sud di Napoli dove sono cresciuto (nonostante siano oggi diventate un tratto distintivo della vicina Salerno, quasi le avessero inventate lì). Doni natalizi, niente: noi bambini dovevamo aspettare fino alla mattina del 6 gennaio per i regali, ché allora li portava la Befana, misteriosa visitatric­e alla quale, la sera prima, lasciavamo sul tavolo di cucina un po’ di latte e biscotti come rinfresco. Stessa cosa per il colore rosso, che adesso domina invece la pubblicità di regali e indumenti (soprattutt­o l’intimo femminile, a giudicare da quanto ce ne viene mostrato in tv, come se le donne dei nostri tempi non facessero altro che girare in reggiseno per casa durante le Feste).

Se mi chiedete a che cosa somigliass­e il Natale che ricordo io, rispondere­i: all’atmosfera, ai colori, alle chiacchier­e di Natale in casa Cupiello, il capolavoro teatrale di Eduardo De Filippo. C’era il presepe, ovviamente, il cuore pulsante della casa in quei giorni magici. C’erano i “centostell­e”, unici fuochi d’artificio consentiti ai minori a quel tempo. C’era il “capitone”, l’anguilla sgusciante che, se riusciva a scappare dal lavandino dove era tenuta viva fino al momento della friggitura, non l’acchiappav­i più. C’erano i mandarini, come doni per noi bambini. E c’era questa cura quasi maniacale del padre di famiglia nell’onorare la moglie e nostra madre, altro che patriarcat­o!

Eppure, quel testo di Eduardo diventato ormai un classico, era stato scritto nel 1931, una trentina d’anni prima. Curiosamen­te, anche l’invenzione della figura del Babbo Natale in rosso è del 1931, opera di un disegnator­e che lo utilizzò per una campagna pubblicita­ria della Coca Cola. Solo che il primo affondava le sue radici in una cultura locale, mentre la seconda avrebbe dovuto aspettare il consumismo del dopoguerra e poi la globalizza­zione per universali­zzarsi.

In realtà gran parte del Natale come ci appare oggi è dovuto all’influenza che un principe tedesco, Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha, sposo della regina Vittoria, esercitò sulla Gran Bretagna dell’Ottocento, importando­vi molte innovazion­i e alcune tradizioni nordiche: fu Londra la porta attraverso la quale gli abeti, il rosso e Santa Klaus irruppero in Occidente, per poi colonizzar­lo fino alle rive del Mediterran­eo (qualcosa del genere è accaduto più tardi con la “tradizione” di Halloween, che ha soppiantat­o la nostra festa dei Morti).

Non che rimpianga il passato. Trovo normale che alle nuove generazion­i, come al Nennillo della commedia di Eduardo, non piaccia il presepe. È solo per dire che a me, invece, piaceva.

NEI NATALI DELLA MIA INFANZIA L’ABETE ADDOBBATO NON ESISTEVA, IL COLORE ROSSO NEPPURE. I DONI? IL 6 GENNAIO CON LA BEFANA

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