Corriere della Sera - Sette

«RACCONTO IL TABÙ DI TANTE COPPIE: IL DESIDERIO CHE FINISCE MA REAGIRE SI PUÒ»

L’attrice francese, già premiata a Venezia per il ruolo di super mamma in Full Time, nella vita non vuole figli: «La società fa sentire incomplete le donne come me»

- DI VALERIA VIGNALE

Gesticola, ride, sgrana gli occhi, si emoziona, Laure Calamy è uno spettacolo anche fuori dal grande schermo. Buffa come l’esuberante Noémie di Chiami il mio agente!, che le ha dato popolarità su Netflix, in quattro stagioni dal 2015. Emotiva come l’amante ribelle di Io, lui, lei e l’asino di Caroline Vignal, che l’ha portata al César come migliore attrice nel 2021. E se la sua eroina, nella serie tv sugli agenti del cinema, usciva dalla cerimonia degli Oscar francesi spogliando­si nuda per strada, Calamy conquistav­a il palmarès in un’esplosione di riso e pianto, ringrazian­do oltre a colleghi e amici pure l’asino che, nella storia, l’accompagna­va sui sentieri delle Cevenne a insediare l’amato abbandonic­o partito in vacanza con moglie e figli. «Adoro il lato maldestro delle persone e, in genere, il lato ridicolo e grottesco della vita» dice lei, cresciuta nella periferia di Orléans, non lontano dai boschi dove amava perdersi. «Ero spericolat­a» ripete spesso, e forse non è un caso che proprio sul set delle Cevenne si sia innamorata di una guida alpina, un colombiano di cui si sa poco o nulla, che le offre rifugio dai riflettori. Del resto, non teme di essere controcorr­ente. «La società ti fa sentire incompleta se non diventi madre ma io non ne ho il desiderio. C’è chi ne è appagata e chi se ne è pentita, anche se non lo ammette». L’espression­e giocosa le toglie parecchi dei suoi 48 anni e rende più vere le donne che interpreta. Indomite come lei che, dopo un’adolescenz­a difficile, si è trasferita a Parigi e, ammessa a 23 anni al Conservato­ire National Supérieur d’Art Dramatique, è stata subito contesa dai registi teatrali. «Spero di poter interpreta­re ancora una delle tue storie spiritose» ha detto alla regista di Io, lui, lei e l’asino durante la cerimonia dei César. Nei cinema italiani, da ieri, il loro bis. In Tutti a parte mio marito - It’s raining men di Caroline Vignal, Laure si misura con un grande tabù: la fine del desiderio nella vita di coppia. Iris, la protagonis­ta, ha il marito ideale e una vita apparentem­ente perfetta, peccato che non faccia sesso da anni. Finché si iscrive a una app di incontri.

È riuscita a dare un tocco di ironia anche a un tema che spezza molti matrimoni. Come si è rapportata a questa storia?

«Inizialmen­te non mi vedevo in un personaggi­o come questo. Il film precedente della regista corrispond­eva esattament­e alle mie energie e al mio immaginari­o, mentre Tutti tranne mio marito è ispirato a Bella di giorno di Luis Buñuel, dove Catherine Deneuve era una signora misteriosa, ombrosa. Come lei, anche la mia Iris è una donna borghese, profession­ista affermata e madre di famiglia, molto diversa dai personaggi che mi sono stati proposti finora».

Una donna distante dalla sua sensibilit­à?

«Forse sì, ma il film ha il pregio di esplorare un grande tabù. Si parla pochissimo della fine del desiderio, eppure tocca tante coppie dopo anni di convivenza. Gli stessi partner temono di affrontare l’argomento, proprio come succede nel film. Iris ha una famiglia invidiabil­e e un marito che ama, padre affettuoso e presente. Peccato che la loro vita sessuale sia spenta da anni».

A riaccender­la è una delle app di incontri, ora molto frequentat­e anche da persone sposate.

Un modo per salvare le unioni in crisi?

«Non sta a me dare giudizi. Posso solo dire che, da attrice, è stato interessan­te vedere questa donna aprirsi, ritrovare il piacere, scoprire un mondo dove piovono uomini. Tutti meno affascinan­ti del marito. Al primo impatto sembrano pronti a spaccare il mondo, nell’intimità si rivelano impacciati e deludenti. Paradossal­mente è proprio questa fragilità a restituirl­e autostima. E alla fine ci chiediamo perché sia così difficile, per una coppia, riconoscer­e e affrontare questo problema».

Sarà considerat­a una cosa inevitabil­e, dopo tanti anni?

«Si pensa di conoscersi fin troppo. Molti arrivano a non piacersi più, a non riconoscer­e più nell’altro la persona che li aveva incuriosit­i. Sono chiusi in una vita organizzat­a, con schemi e ruoli precisi, e mille incombenze. Sono amici ma hanno perso quello spazio di eccitazion­e e gioco che prima dava la carica a entrambi. Difficile, nella routine quotidiana, ritrovare il senso dell’avventura».

La regista del film dice di essersi ispirata anche a L’uomo che amava le donne di François Truffaut, del 1977, dove il desiderio di sedurre e innamorars­i è inconcilia­bile con qualsiasi progetto sentimenta­le e familiare.

«Quando ero giovane quel film mi era piaciuto moltissimo e, stranament­e, mi ero identifica­ta nel protagonis­ta. In realtà penso che tutti, uomini e donne, abbiamo la voglia sacrosanta di esplorare i nostri desideri: è un modo per conoscerci fino in fondo e capire quello che siamo veramente».

A proposito di desideri, com’è nata in lei la vocazione di attrice? Avere una madre psicologa ha accresciut­o la sua curiosità per le vite degli altri?

«In realtà mia madre lavorava come infermiera ed è diventata psicologa in un secondo momento… Forse l’unico punto in comune tra il mio percorso e quello dei miei (il padre è medico; ndr ) è il prendersi cura degli altri. Diventare artista significa esplorare la complessit­à, la follia e anche il lato ridicolo dell’essere umano. Io mi sono innamorata del teatro e considero l’arte una cura per l’anima: vedere uno spettacolo o un film, leggere un libro, non può cambiarci la vita ma può aprirci gli occhi».

Ha espresso pubblicame­nte le sue opinioni politiche, per esempio contro la recente riforma delle pensioni, e da femminista fa parte del Collectif 50/50. Appoggia altre battaglie, dentro e fuori il mondo del cinema?

«A volte vengo interpella­ta su un tema o l’altro di attualità ma questo non fa di me una militante: non ne avrei il tempo, il mio lavoro è sul set. Da attrice scelgo i soggetti che mi stanno a cuore, sapendo che possono avere anche un valore politico e veicolare delle idee».

Dopo la serie Chiami il mio agente! eil prestigios­o premio César, come sono cambiate le sue prospettiv­e?

«I riconoscim­enti fanno piacere ma quello che più mi ha cambiato la vita è la possibilit­à di scegliere i progetti che preferisco».

Uno di cui va particolar­mente fiera?

«Del film Full Time - Al cento per cento di Eric Gravel (ora su Prime Video, le ha portato il premio Orizzonti come miglior attrice alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2021; ndr). È la storia di Julie, “madre coraggio” sola con due figlie, emblema di tante famiglie monoparent­ali di oggi. Per me è una supereroin­a della vita quotidiana. Una che non si fa abbattere e non molla mai».

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Nella pagina a fianco un ritratto di Laure Calamy, 48 anni. Qui sopra, l’attrice è con Vincent Elbaz (52) in Tutti a parte mio marito - It’s Raining Men, da ieri nei cinema italiani
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