GUSTAVE EIFFEL
LA TORRE GIÀ «ASPARAGO DI FERRO» CAPOLAVORO DEL PIÙ ODIATO DAI FRANCESI
Ammasso di ferraglia», «asparago di ferro», «mostro superfluo», «idolo di metallo», e via elencando, per vituperare/fermare/affossare il progetto della Tour Eiffel gli insulti si rincorrevano. Incredibile vedere, a rileggerne adesso, l’incessante formicaio di livori che a fine Ottocento si muovevano dietro al progetto di un’opera per noi assodata e inseritta nell’immaginario del turista internazionale: 7 milioni di visitatori l’anno, monumento più visitato al mondo.
Oggi è così (incredibile, visto che noi abbiamo opere come il Colosseo), ma allora contro il progetto si erano scatenate le menti migliori del Paese, lo accusavano di modernismo anti artistico, concetti che sintetizzarono in un manifesto firmato fra gli altri da intellettuali di culto al momento come Guy de Maupassant, Alexandre Dumas figlio, Emile Zola: un disonore per Parigi e un orrore che neppure l’America era riuscita ancora a concepire. De Maupassant si scagliò contro quella «piramide allampanata e stecchita di scale di ferro, quello scheletro gigantesco e sgraziato, la cui base sembra esser fatta per sostenere un colossale monumento di Ciclopi e poi finisce con il profilo scarno e ridicolo della ciminiera di una fabbrica». Salvo poi pentirsi e arrendersi al nuovo che avanza, anche per il ristorante al primo piano di cui era assiduo frequentatore. Diceva – forse per salvare la faccia – che era l’unico posto di Parigi da cui non si vedeva quell’obbrobrio.
Peggior sorte ancora che al monumento era toccata al suo ideatore, Gustave Eiffel, ingegnere di talento che si era battuto come un leone ma che nella foga della character assassination era stato addirittura definito con spregio «ebreo tedesco», cosa che lo aveva costretto sbrigativamente a difendersi sul quotidiano Le Temps: «Non sono né ebreo né tedesco. Sono nato a Digione, in Francia, da genitori francesi e cattolici».
Un po’ tedesco era davvero (nato Alexandre Gustave Bönickhausen, cambiò cognome solo nel 1880 perché era ostico da pronunciare in Francia) e di agiata famiglia. Tanto che da giovane aveva avuto una vita spensierata da bon vivant fra cavalli, balli, belle parigine e amore per la scherma. Poi la passione per l’ingegneria studiata a scuola e i nuovi materiali prese il sopravvento e cominciò ad appassionarsi alle frontiere dell’ingegneria ferroviaria e dell’impiego del ferro per costruire i ponti, ingegnosamente ambizioso quello di Saint-Jean
sulla Garonna. Era felice del sorprendente successo: faceva quel che gli piaceva, stava a contatto con la natura e stava bene con gli operai grazie al buon carattere. Fondò una sua impresa e ispirò parecchie nuove opere nel mondo, dal Vietnam all’Ungheria, arrivando fino a New York, con la Statua della Libertà, per la quale progettò la struttura reticolare interna in acciaio.
Proprio mentre la sua fama correva nel mondo sono arrivate le croci e delizie della Torre Eiffel. Dopo tutti gli up and down, dopo quasi 5 anni dal suo concepimento e poco più di due dall’inizio lavori, alle 11.50 del 5 maggio 1889 c’è stata l’inaugurazione dell’edificio più alto al mondo (300 metri esclusa l’antenna) che tale rimase fino al 1930 quando fu battuto dal Chrysler Building. L’occasione era l’Esposizione universale di fine secolo, a Parigi, nel centenario della Rivoluzione.
Capolavoro di tecnica e fervore progressista, la torre si basava su numeri fantasmagorici, 18 mila travi metalliche prefabbricate e assemblate con 5 milioni di bulloni: peso 10 mila tonnellate, costo quasi 8 milioni di franchi oro. Un simbolo che anche se era nato come monumento alla funzionalità e senza troppe pretese artistiche, per eterogenesi dei fini si era presto trasformato in opera simbolica, se non proprio artistica, che imprimeva un forte segno sulla città e sul suo skyline.
«Sono convinto che la torre possegga una sua intrinseca bellezza. Il principio primo dell’estetica architettonica è che le linee essenziali della costruzione coincidano perfettamente con la sua utilità. Noi siamo abituati ai ninnoli artistici. Ma perché non possiamo dimostrare al mondo che siamo in grado di realizzare i più eccelsi progetti ingegneristici? La torre sarà l’attrazione più spettacolare di tutta l’Esposizione»: così, determinato, Eiffel aveva risposto alle superciliosità degli intellettuali. E si era rivelato buon profeta.
Morto 100 anni fa, il 27 dicembre 1923, sarà riscattato, con la sua torre, non solo dal costante indotto commerciale ma anche dall’inchino di un grande interprete del ’900, il semiologo Roland Barthes : «Sguardo, oggetto, simbolo, la Torre è tutto ciò che l’uomo decide di metterci, e questo tutto è infinito. Spettacolo guardato e guardante, edificio inutile e insostituibile, mondo familiare e simbolo eroico, testimone di un secolo e monumento sempre nuovo, oggetto inimitabile e costantemente riprodotto, è il simbolo puro, aperto a tutti i tempi, a tutte le immagini e a tutti i sensi: la metafora irrefrenabile». Un’araba fenice.