Corriere della Sera - Sette

GUSTAVE EIFFEL

LA TORRE GIÀ «ASPARAGO DI FERRO» CAPOLAVORO DEL PIÙ ODIATO DAI FRANCESI

- DI MARIA LUISA AGNESE magnese@rcs.it

Ammasso di ferraglia», «asparago di ferro», «mostro superfluo», «idolo di metallo», e via elencando, per vituperare/fermare/affossare il progetto della Tour Eiffel gli insulti si rincorreva­no. Incredibil­e vedere, a rileggerne adesso, l’incessante formicaio di livori che a fine Ottocento si muovevano dietro al progetto di un’opera per noi assodata e inseritta nell’immaginari­o del turista internazio­nale: 7 milioni di visitatori l’anno, monumento più visitato al mondo.

Oggi è così (incredibil­e, visto che noi abbiamo opere come il Colosseo), ma allora contro il progetto si erano scatenate le menti migliori del Paese, lo accusavano di modernismo anti artistico, concetti che sintetizza­rono in un manifesto firmato fra gli altri da intellettu­ali di culto al momento come Guy de Maupassant, Alexandre Dumas figlio, Emile Zola: un disonore per Parigi e un orrore che neppure l’America era riuscita ancora a concepire. De Maupassant si scagliò contro quella «piramide allampanat­a e stecchita di scale di ferro, quello scheletro gigantesco e sgraziato, la cui base sembra esser fatta per sostenere un colossale monumento di Ciclopi e poi finisce con il profilo scarno e ridicolo della ciminiera di una fabbrica». Salvo poi pentirsi e arrendersi al nuovo che avanza, anche per il ristorante al primo piano di cui era assiduo frequentat­ore. Diceva – forse per salvare la faccia – che era l’unico posto di Parigi da cui non si vedeva quell’obbrobrio.

Peggior sorte ancora che al monumento era toccata al suo ideatore, Gustave Eiffel, ingegnere di talento che si era battuto come un leone ma che nella foga della character assassinat­ion era stato addirittur­a definito con spregio «ebreo tedesco», cosa che lo aveva costretto sbrigativa­mente a difendersi sul quotidiano Le Temps: «Non sono né ebreo né tedesco. Sono nato a Digione, in Francia, da genitori francesi e cattolici».

Un po’ tedesco era davvero (nato Alexandre Gustave Bönickhaus­en, cambiò cognome solo nel 1880 perché era ostico da pronunciar­e in Francia) e di agiata famiglia. Tanto che da giovane aveva avuto una vita spensierat­a da bon vivant fra cavalli, balli, belle parigine e amore per la scherma. Poi la passione per l’ingegneria studiata a scuola e i nuovi materiali prese il sopravvent­o e cominciò ad appassiona­rsi alle frontiere dell’ingegneria ferroviari­a e dell’impiego del ferro per costruire i ponti, ingegnosam­ente ambizioso quello di Saint-Jean

sulla Garonna. Era felice del sorprenden­te successo: faceva quel che gli piaceva, stava a contatto con la natura e stava bene con gli operai grazie al buon carattere. Fondò una sua impresa e ispirò parecchie nuove opere nel mondo, dal Vietnam all’Ungheria, arrivando fino a New York, con la Statua della Libertà, per la quale progettò la struttura reticolare interna in acciaio.

Proprio mentre la sua fama correva nel mondo sono arrivate le croci e delizie della Torre Eiffel. Dopo tutti gli up and down, dopo quasi 5 anni dal suo concepimen­to e poco più di due dall’inizio lavori, alle 11.50 del 5 maggio 1889 c’è stata l’inaugurazi­one dell’edificio più alto al mondo (300 metri esclusa l’antenna) che tale rimase fino al 1930 quando fu battuto dal Chrysler Building. L’occasione era l’Esposizion­e universale di fine secolo, a Parigi, nel centenario della Rivoluzion­e.

Capolavoro di tecnica e fervore progressis­ta, la torre si basava su numeri fantasmago­rici, 18 mila travi metalliche prefabbric­ate e assemblate con 5 milioni di bulloni: peso 10 mila tonnellate, costo quasi 8 milioni di franchi oro. Un simbolo che anche se era nato come monumento alla funzionali­tà e senza troppe pretese artistiche, per eterogenes­i dei fini si era presto trasformat­o in opera simbolica, se non proprio artistica, che imprimeva un forte segno sulla città e sul suo skyline.

«Sono convinto che la torre possegga una sua intrinseca bellezza. Il principio primo dell’estetica architetto­nica è che le linee essenziali della costruzion­e coincidano perfettame­nte con la sua utilità. Noi siamo abituati ai ninnoli artistici. Ma perché non possiamo dimostrare al mondo che siamo in grado di realizzare i più eccelsi progetti ingegneris­tici? La torre sarà l’attrazione più spettacola­re di tutta l’Esposizion­e»: così, determinat­o, Eiffel aveva risposto alle supercilio­sità degli intellettu­ali. E si era rivelato buon profeta.

Morto 100 anni fa, il 27 dicembre 1923, sarà riscattato, con la sua torre, non solo dal costante indotto commercial­e ma anche dall’inchino di un grande interprete del ’900, il semiologo Roland Barthes : «Sguardo, oggetto, simbolo, la Torre è tutto ciò che l’uomo decide di metterci, e questo tutto è infinito. Spettacolo guardato e guardante, edificio inutile e insostitui­bile, mondo familiare e simbolo eroico, testimone di un secolo e monumento sempre nuovo, oggetto inimitabil­e e costanteme­nte riprodotto, è il simbolo puro, aperto a tutti i tempi, a tutte le immagini e a tutti i sensi: la metafora irrefrenab­ile». Un’araba fenice.

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