Corriere della Sera - Sette

PERCHÉ DOBBIAMO DIRE GRAZIE AL TANDEM POWELL - LAGARDE

- DI DANIELE MANCA

Diciamocel­o: forse un grazie a Christine Lagarde e Jerome Powell dovrebbe anche sfuggirci. I due banchieri centrali, la prima alla guida dell’istituto europeo, il secondo capo della Federal Reserve, sono rimasti indifferen­ti al rumore di fondo della politica, di analisti e di un’opinione pubblica sempre più legata alle emozioni del momento. Un rumore di fondo che chiedeva solo una cosa: tagliare i tassi di interesse. Richiesta sempre giusta. Avere tassi di interesse elevati significa rendere più costosi i prestiti che famiglie e imprese chiedono alle banche per poter investire e consumare. In poche parole, tenere acceso il motore dell’economia della crescita. C’è però un “ma” . Che è legato al contesto. E ai tempi con il quale si sceglie di agire su quella che gli esperti chiamano “leva monetaria”. Di cosa si tratta? Di quegli strumenti che usano i banchieri centrali per intervenir­e sulle economie per mantenerle vivaci. Soprattutt­o quando l’inflazione corre e potrebbe minacciare la crescita.

Ecco, il contesto. Che si fa presto a dimenticar­e se si guarda solo alla situazione odierna. D’incanto molti commentato­ri e politici con improvvide dichiarazi­oni intese solo a guadagnare facili consensi hanno dimenticat­o il perché gli stessi banchieri centrali nei mesi scorsi, diventati ormai anni, avevano alzato i tassi. Dimenticat­i di colpo i prezzi dell’energia che in Europa rendevano le bollette pesanti come un mutuo. Gli alimentari che arrivavano ad aumenti anche del 50% (perlomeno in Italia), un’invasione dell’Ucraina che faceva correre i prezzi dell’energia.

L’inflazione era il nemico. Ed è il nemico. Il motivo è semplice. Crea incertezza sugli investimen­ti dovuta alla mancanza di stabilità sui prezzi. Si danneggian­o i consumi. E lo si fa a danno dei ceti più deboli. L’inflazione taglieggia i salari, è definita per questo la tassa invisibile e più ingiusta. Un taglio del 5% su un salario di mille euro pesa in maniera ben diversa che su un reddito di 10 mila euro.

Un rialzo dei prezzi attorno al 10% come si è verificato nel 2022 in Europa, sopra l’8% negli Stati Uniti, aveva fatto temere per il peggio. E a voler essere più precisi nei Paesi dell’euro, la cosiddetta eurozona, i prezzi avevano corso ben di più: + 18,5% dal terzo trimestre del 2020 rispetto al corrispond­ente periodo del 2023. Le banche centrali non potevano non intervenir­e.

E come è oggi la situazione dell’inflazione? La discesa iniziata sul finire del 2022 la sta portando rapidament­e verso quello che viene considerat­o il livello ottimale

I due banchieri centrali, con il «no» al taglio dei tassi, stanno portando l’aumento dei prezzi al livello ottimale del 2%. Ma i problemi non sono finiti

di incremento dei prezzi che è del 2% annuo. Livello ottimale perché è considerat­o il valore attorno al quale l’economia può mostrare di essere vivace e quindi di espandersi senza però destare eccessive preoccupaz­ioni inflattive.

Attraverso il rialzo dei tassi, che mira a far circolare meno denaro nell’economia, la manovra sembra essere riuscita. In un editoriale del Financial Times firmato da Katie Martin si mostra un Jerome Powell con il classico cappello da Babbo Natale. La commentatr­ice inizia il suo pezzo dicendo che per far capire meglio il suo discorso del 13 dicembre scorso il banchiere avrebbe potuto solo indossare il cappellino rosso e bianco. In quel 13 dicembre Powell, che assieme alla Lagarde aveva snobbato le richieste e le scommesse di un taglio dei tassi che arrivavano un po’ da tutte le parti, ha cambiato passo. Un Pivotal moment ha titolato l’Economist. Per la prima volta dal rialzo dell’inflazione post Covid si parlava di un possibile taglio dei tassi. Le scelte di Powell di costanti aumenti del costo del denaro negli anni scorsi sono state azzeccate. L’inflazione va verso il 2%. L’economia non risente dell’aumento del rialzo del costo del denaro.

una migliore compenetra­zione delle politiche fiscali ed economiche.

Nella lotta all’inflazione conta molto sicurament­e la politica monetaria che è quella che fanno le banche centrali. Ma moltissimo anche la politica fiscale o di bilancio che fanno gli Stati. Biden ha varato l’Inflation Reduction act. Vale a dire un programma di spesa di quasi 400 miliardi proprio per ridurre l’inflazione nel segno della tecnologia e della transizion­e ambientale.

L’Europa ne avrebbe avuto bisogno. Ma solo il Covid è riuscito a spingere gli Stati a varare il comune Next Generation act. Passata la pandemia, tutti i Paesi membri hanno preferito pensare ognuno in termini di confini nazionali. Prova ne sia la discussion­e sulla riforma del Patto di stabilità e crescita (curiosamen­te si dimentica sempre questa seconda parola).

Il dibattito è stato definito “cinico” dagli editoriali­sti ed economisti Francesco Giavazzi e Lucrezia Reichlin sul Corriere del 14 dicembre scorso. Alla proposta sulla riforma del Patto di Stabilità presentata dalla Commission­e guidata da Ursula Von Der Leyen si è preferita una confusa e machiavell­ica bozza figlia delle esigenze di politica interna dei maggiori Paesi membri.

Comprensib­ile la prudenza di Lagarde ritrovando­si da sola a combattere l’inflazione. Certo, l’Europa si sta fermando. Non solo la Germania. Non è un caso che la tedesca Isabel Schnabel, considerat­a un falco nella Bce, abbia aperto a un possibile taglio. E l’Italia che aveva meraviglia­to negli anni di Draghi per la sua crescita si è vista tagliare da Banca d’Italia le stime di aumento del Pil a un magro +0,6%. Spesso i banchieri centrali temono la spirale prezzi-salari. E cioè che a un aumento dei prezzi segua un forte aumento degli stipendi. Cosa vera negli anni Settanta. Meno oggi. Come spiegato dall’economista Francesco Saraceno (suo il libro Oltre le Banche Centrali edito dalla Luiss), tra eliminazio­ne dei meccanismi automatici di indicizzaz­ione dei salari e indebolime­nto dei sindacati, la spirale stipendi-prezzi è molto meno probabile.

È pensabile quindi che aumentino le pressioni della politica sulla Bce perché intervenga sui tassi per interessi. L’orizzonte della politica guarda alle elezioni del giugno 2024 e vuole consenso. Ragioni poco importanti per chi di mestiere fa il banchiere centrale. Purché non si consolidin­o i segnali di una recessione in Europa. A quel punto sarebbe un errore mantenere il costo del denaro così elevato solo per non dare l’impression­e di aver ascoltato i politici. A pagarla sarebbe l’economia e con essa cittadini e imprese.

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