IL RAGAZZO MAGICO CHE HA ROTTO IL TABÙ DEL ’76
Quattro chili in più di muscoli e un carattere d’acciaio: adesso per il fuoriclasse c’è il torrido Australian Open, mai vinto da un italiano
Agennaio era un tardo-adolescente dell’Alto Adige, caviglie da Nureyev e braccio innervato di fil di ferro, la testa piena di sogni sotto i ricci rossi (ci tiene, li cura e li taglia quando cominciano a fare le alette sotto il cappellino). Ma il 26 novembre, a Malaga, nella domenica che ha riannodato uno strappo con la Coppa Davis lungo 47 anni, dietro all’insalatiera opaca di manate è sbucato un giovane uomo italiano, quattro chili di muscoli in più rispetto a inizio stagione, un accenno di pizzetto, le spalle sufficientemente larghe da caricarsi il Paese nello zaino, come quando con nonno Josep partiva per una camminata sui sentieri delle Dolomiti.
In undici mesi Jannik Sinner è cresciuto sotto i nostri occhi mentre le cure dei due allenatori che lo allevano come un raro cucciolo di campione – il marchigiano Simone Vagnozzi e l’australiano Darren Cahill – lo aiutavano a definire i contorni del fuoriclasse che ha promesso di diventare, il cantiere aperto avanza per tappe programmate a scadenze non casuali, la prima semifinale Slam (Wimbledon, luglio), il primo titolo Master 1000 (Toronto, agosto), i tabù infranti con la precisione del metronomo (Medvedev, Djokovic, Rune), perché in questa storia di artigianato locale esportato all’estero (cosa c’è di più artigianale dell’intaglio di un tennista d’élite nella materia grezza di qualità rotolata giù dalle montagne?) il made in Italy è l’evoluzione costante del capitale umano Sinner, senza i picchi e gli sprofondi del gemello diverso Alcaraz, seguendo una parabola che sa di cose ben fatte.
Diventare uomo nell’anno solare, sotto il riflettore accecante di un tifo disposto a perdonare nulla, non era da tutti. L’Italia è il luogo della memoria a chi manca un vincitore Slam dal ’76 (Panatta), l’annus mirabilis che in coda si trascinò dietro la Davis conquistata nel Cile di Pinochet, la fiaba che i nonni hanno tramandato ai nipoti, ed è come se Jannik, che è nato nel 2001 a mille anni luce dall’eco di quell’avventura fatta di suggestioni e magliette rosse, alzando l’insalatiera abbia rotto un incantesimo: aver riportato a casa la Davis (riveduta e corretta, certo, ma sempre Davis) lo libera da un debito implicito assolto nei confronti della collettività che su di lui proietta aspettative enormi, sdoganando il ragazzo magico verso conquiste clamorose per se stesso. Soddisfatti i nostalgici, è il momento di tornare ad essere un ventiduenne a caccia di scalpi nelle quattro prove del Grande Slam, l’area del quadrato che perimetra l’eccellenza.
Djokovic è Djokovic perché ha vinto 24 titoli Major, Nadal è Nadal perché ne ha sbranati 22 con fame atavica, Federer è Federer perché ha ridefinito la bellezza per venti indimenticabili volte, e qui non cadremo nel tranello di paragonare i Big Three, l’esercizio di stile destinato all’eternità. Il 2024 potrebbe essere l’anno di un’altra prima volta. Mai un tennista italiano si è annesso il torrido Australian Open, feudo aussie fino all’inizio degli Anni 70, quando a Melbourne sono sbarcati gli invasori americani e argentini prima dell’avvento del rinascimento europeo, che da 15 anni domina
che l’ha fatto decollare da Vienna (torneo vinto battendo il russo Medvedev per la seconda volta consecutiva) in poi: finale alle Atp Finals di Torino con primo successo sul numero uno Djokovic e boom del tennis tornato in chiaro sulla Rai, trionfo in Davis a Malaga ribattendo il Djoker furibondo.
Non c’è niente di meno scontato del referendum popolare che vede piazzato sicuro un ex sciatore che alle curve del gigante ha preferito la geometria euclidea applicata alle superfici del tennis, sintetico-terra-erba-cemento, con tutte le variabili, spesso impazzite, di partite capaci di durare anche quattro ore (il minutaggio delle manche dello sci era troppo rapido, e quindi effimero, per Jannik), la solitudine del tennista al centro di un’entropia che prevede la condivisione di sé con l’esterno, traumi infantili inclusi (vedi i casi clinici McEnroe e Kyrgios), ma in questo settore Sinner viaggia leggero. Dai genitori, Hanspeter e Siglinde, cuoco e cameriera per trent’anni al rifugio Talschlusshütte (Fondovalle) in Val Fiscalina, ha appreso l’etica del lavoro; il fratello Mark, nato in Russia e adottato dai Sinner quando erano convinti di non poter avere figli, è il suo anello di congiunzione con la vita: «A volte lo chiamo e non risponde. È normale: lui lavora alla caserma dei pompieri di Vilpiano, io gioco a tennis». Adesso il padre cucina per lui quando all’albergo preferisce la casa in affitto («Dopo tanti anni di quella vita, lo vedevo un po’ giù: ho voluto tirarlo fuori da lì e fargli vedere come vivo da quando, a 13 anni, sono andato via di casa») e la madre continua a non vedere le sue partite: troppa sofferenza per quel figlio globetrotter venuto su lontano da San Candido, dalla rassicurante vita di paese, dalla neve che surgela tutto per gran parte dell’anno.
Esposto alle emozioni, bombardato di sport e di vita, l’atomo Sinner oggi è l’adulto che in attesa di cambiare il mondo ha rivoluzionato lo sport italiano. L’Alto Adige delle eccellenze di nicchia (sciatori, pattinatrici, marciatori) è il cuore pulsante di una passione chiamata tennis, l’ex disciplina da ricchi che grazie a Jannik lancia l’arrembaggio alla popolarità straripante del calcio. Se non fosse un’eresia, sarebbe già un piccolo miracolo italiano.