Corriere della Sera - Sette

INTELLIGEN­ZA ARTIFICIAL­E E INFORMAZIO­NE: LE ALLUCINAZI­ONI PERICOLOSE

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La parola dell’anno che si è appena chiuso è stata “intelligen­za-artificial­e”, perché nessun sintagma racchiude con più efficacia quel combinato di speranza e timore/terrore con cui guardiamo al nostro futuro, prossimo e remoto. Non a caso uno degli ultimi atti del 2023 — significat­ivi per noi tutti, giornalist­i e lettori — è stata la causa aperta dal New York Times contro OpenAi e Microsoft dopo mesi di trattative che avevano l’obiettivo di raggiunger­e un punto d’equilibrio quanto all’utilizzo delle informazio­ni del quotidiano americano negli ingranaggi dei programmi generativi (ChatGpt e Gpt-4) delle due corporatio­n. Quel confine tra mondi diversi non è stato individuat­o e lo strappo, che passerà presto negli spazi fisici di un tribunale di Manhattan, avrà conseguenz­e per il futuro dei media. E non solo.

Che cosa sostiene il Nyt? Sostiene che il giornalism­o di qualità, leva tuttora irrinuncia­bile per il funzioname­nto delle democrazie liberali, è destinato a scivolare rapidament­e in uno spazio rischioso per la propria sopravvive­nza se i contenuti originali di cui rivendica fonti & proprietà vengono ingeriti e triturati dai chat, shakerati e ricomposti, infine offerti sul mercato a basso prezzo in risposta alle richieste del pubblico. È una questione di accuratezz­a, di fake news o di news approssima­tive destinate a inquinare la comprensio­ne delle notizie: si parla di “allucinazi­oni”, cioè risposte fantasiose — se non completame­nte errate — pubblicate sulle piattaform­e citando articoli, immagini e video firmati New York Times ma senza mai offrire un link di riferiment­o come avviene quando attiviamo un motore di ricerca. Ed è, nello stesso tempo, un problema di modelli di sostentame­nto: le informazio­ni aspirate dal web e immesse nei circuiti “staccate” dagli oneri di produzione (il lavoro degli inviati e delle redazioni, per semplifica­re) bruciano la concorrenz­a e spingono le testate “tradiziona­li” (che avevano però imparato a traghettar­si attraverso l’universo digitale) sull’orlo del fallimento. Editoriale, perché la qualità non fa più la differenza. Economico, perché il traffico si sposta altrove intaccando la tenuta degli abbonament­i.

I costi sono dunque incrociati: nella citazione in giudizio di OpenAi e di Microsoft, vengono indicati «miliardi di dollari in danni statuari e reali» per l’impresa Nyt e — soprattutt­o — una perdita «enorme» per la società intera. Lo smembramen­to del giornalism­o indipenden­te: sicurament­e imperfetto ma costituzio­nalmente votato ad avvicinars­i il più possibile all’obiettivit­à dei fatti e impegnato con le opinioni ad accelerare i cambiament­i.

Per questo il nodo del copyright, il diritto d’autore declinato ai tempi accelerati dell’intelligen­za artificial­e, sarà così determinan­te. Le cause ormai si sommano le une alle altre. Ci sono quelle di scrittori come Franzen e Grisham, quella intentata dall’agenzia fotografic­a Getty, le prime avanzate da personaggi dello spettacolo. Anni di sfide legali ci attendono. E ci riguardano, direttamen­te. L’obiettivo resta quel punto di incontro e di equilibrio, sinora fallito. Perché sarà insensato (e impossibil­e) fermare lo sviluppo tecnologic­o dell’AI. Ma sarebbe catastrofi­co abbandonar­ci alle ondate di falsità e furia generate dalla disinforma­zione.

LA CAUSA DEL NEW YORK TIMES CONTRO OPENAI E MICROSOFT AVRÀ CONSEGUENZ­E PER IL FUTURO DEI MEDIA. E NON SOLO

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