LA CAMORRA E LA STRAGE DEGLI INNOCENTI
Quindici anni fa gli uomini del clan Setola assaltarono una sartoria nigeriana: a terra rimasero sei lavoratori africani, che erano lì per caso
Al di là della violenza feroce di un branco di criminali intolleranti a ogni regola, anche quella mafiosa, la strage di San Gennaro è scaturita dalla morte di un sogno. Negli Anni 80, Castel Volturno poteva diventare e rimanere, come ripete oggi qualcuno dei giovani impegnati in un complicatissimo rilancio, una piccola Dubai. Ai tempi, più provincialmente, la si paragonava a Rimini, un litorale à la page per borghesi napoletani e non solo. Al Villaggio Coppola, figlio di un abuso edilizio faraonico, si avvistavano villeggianti americani, politici in vista e personaggi del jet-set.
LE MACERIE
Ed è con uno squarcio su quel mondo, di cui rimangono solo macerie inghiottite dalla vegetazione e muri sgretolati dalla salsedine, che apre il suo documentario Matteo Lena, regista alessandrino di stanza a Roma, il cui lavoro La strage di San Gennaro, scritto da Carlo Altinier e Stefania Colletta, sarà trasmesso in prima visone il 30 gennaio su Sky Crime. Dai lustrini riesumati da filmati sbiaditi della Pinetamare al volto segnato di Elisabeth Siaibour, una parrucchiera scampata alla tempesta di fuoco grazie a un presentimento salvifico, c’è lo spazio di qualche fotogramma. Castel Volturno, esaurita l’euforia collettiva, fu devastata da una serie di concause nefaste: l’arrivo di migliaia di sfollati post terremoto in Irpinia, con susseguente esproprio di appartamenti; la smobilitazione del contingente Usa residente nei pressi della base Nato; la svalutazione e l’abbandono degli immobili, il degredo. Da regno delle vacanze a discarica sociale: un nugolo di scadimento umano e desolazione, un dormitorio degli ultimi nel quale la legge dominante fu, per decenni, quella imposta dalla camorra dell’entroterra di Casal di Principe. L’arrivo della comuni
tà ghanese prima e di quella nigeriana poi, fu l’innesco di una reazione a catena. Parte degli immigrati costituì una cellula dedita a due attività: la prostituzione lungo la Domiziana, l’antica via che collega Mondragone a Pozzuoli, e il traffico di stupefacenti. Pur nella sconfitta dello Stato, la convivenza tra affari della mafia di importazione e locale - affezionata agli appalti pubblici e al pizzo – si protrasse fino all’avvento di una banda deviata, il gruppo capeggiato da Giuseppe Setola. “O pazz” sparigliò l’ordine costituito: voleva estendere il racket alle attività criminali dei nigeriani. Tutti dovevano pagare, buoni o cattivi che fossero. Al processo, un suo compare avrebbe detto che «Giuseppe era uno scapestrato, un drogato, uno che tirava cocaina come un pazzo». Il suo modello di controllo era semplice: chi non sottostava alla regola, andava educato «mandando un messaggio». Il documentario ricorda correttamente l’esecuzione, a scopo didattico, di Mimmo Noviello, colpevole di aver denunciato (otto anni prima dell’esecuzione) i suoi estorsori. Ammazzato a Castel Volturno il 16 maggio 2008 da Setola e dai suoi. Poi toccò a Michele Orsi, imprenditore nello smaltimento rifiuti insieme al fratello, ucciso mentre era al Roxy Bar di Casal di Principe il primo giugno dello stesso anno. E ancora, Raffaele Granata, imprenditore balneare, ammazzato l’11 luglio al Lido La Fiorente. Obiettivo della spedizione era il figlio: si era rifiutato di pagare il pizzo agli emissari della banda.
Il clan Setola e i suoi soci di sangue (Giovanni Letizia, Alessandro Cirillo, Davide Granato, Antonio Alluce) si fecero sempre più fanatici delle esecuzioni a freddo come mezzo di risoluzione delle controversie. Il 18 agosto il nucleo colpì, sempre a Castel Volturno, la sede dell’associazione nigeriani campani, forte di quasi mille iscritti. Ospitata a casa di Teddy Egonwman, mediatore culturale, preoccupato anzitutto di combattere l’illegalità nella sua stessa comunità. Mentre amici adulti di Teddy e un gruppetto di bambini si intrattenevano nel cortile dell’abitazione, appena fuori dal cancello il boss e alcuni suoi aiutanti spararono all’impazzata: per pura fatalità il bilancio fu di qualche ferito non grave.
Il 18 settembre 2008, l’apocalisse. «Ho deciso di raccontarla», spiega Lena, «partendo dalla considerazione che si tratta della strage di matrice mafiosa più sanguinosa mai avvenuta in Italia ma sembra che in molti non ne siano consapevoli; forse, perché le vittime non erano italiane». Un giorno di fuoco iniziato con la decisione di Setola di farsi giustizia con Antonio Celiento, pregiudicato, gestore di una sala giochi di Baia Verde, frazione di Castel Volturno, e sospettato di essere un informatore delle forze dell’ordine. Alle 21:35, mentre al San Paolo il Napoli sfidava il Benfica e anche il sostituto procuratore che avrebbe istruito la causa, Cesare Sirignano, era in tribuna a seguire
In alto la saracinesca della sartoria OB Exotic Fashions di Castelvolturno presa di mira dal commando. Qui sotto i killer Oreste Spagnuolo,
Alessandro Cirillo e Giovanni Letizia l’incontro, partì l’azione infernale. Sono trascorsi più di quindici anni ma, al civico 1085 della Domiziana, località Ischitella, c’è ancora tutto. Il salone Black Pearls della signora Elisabeth e, accanto, la saracinesca abbassata dell’Ob Exotic Fashions, la sartoria presa di mira dal clan Setola per la soluzione finale del problema degli africani. I buchi dei proiettili sono stati chiusi da una passata di stucco, niente più. Sebbene la Cassazione abbia poi scartato la richiesta, difficile non pensare a una carneficina motivata pure dalla volontà di spargere terrore: nel negozio non c’erano responsabili della malavita nigeriana ma avventori casuali. Julius Francis Kwame Antwi, lavoratore saltuario. Eric Affun Yeboa, carrozziere che arrotondava come barbiere. Christopher Adams, ghanese, faceva il barbiere pure lui; Samuel Kwako del Togo, passava per caso di lì perché cercava un amico. Alex Jeemes, della Liberia, amico di El Hadji. E poi El Hadji Ababa, il titolare della sartoria. Fulminato mentre cuciva a macchina. A referto, finirono più di cento bossoli sparati da otto armi tra cui un Ak-47 e una pistola mitragliatrice.
La contabilità del terrore di Castel Volturno assommava diciotto morti in sei mesi. Il giorno successivo, il documentarista Romano Montesarchio filmò la protesta spontanea della comunità africana, inizialmente convinta che a trucidare gli innocenti della sartoria fosse stata la polizia: il clan si era camuffato da personale delle forze dell’ordine. Nel documentario manca la voce dell’unico sopravvissuto, Joseph Ayimbora, testimone dell’azione, salvato dal sangue di un amico e primo accusatore dei killer; è morto in una località protetta, pare per aneurisma, nelle more del processo d’Appello. La parrucchiera, invece, ha potuto raccontare la sua storia a Lena perché «quel giorno sentii come una voce da dentro: “Vai via da questo posto”. Chiusi il negozio e me ne andai a casa».