Corriere della Sera - Sette

SIAMO TUTTI TERAPISTI DELL’ANIMA SUGGERIAMO RIMEDI SENZA INDAGARE SULLE CAUSE

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È pericoloso rispondere elusivamen­te ad amici, parenti e affini che ti chiedono «come stai?», soprattutt­o in periodo di feste. Se poi per caso si prolunga troppo l’attimo di incertezza che ti impedisce di adottare la formula di rito, per la quale la domanda non è una vera domanda e non richiede dunque una vera risposta, allora la rivelazion­e che in fondo non stai poi così bene apre la porta a sgradevoli conseguenz­e.

Se il male imprudente­mente confessato è fisico, ancora ancora te la cavi con poco. Qualche rassicuraz­ione su una pronta guarigione, un parallelo con un lontano cugino che ha avuto la stessa cosa e si è completame­nte ristabilit­o, la segnalazio­ne di un medico o di un fisioterap­ista che «fa miracoli».

Ma se per caso non c’è niente che non vada nella tua salute, e quell’esitazione che hai avuto è piuttosto dovuta a una mestizia, a un dilemma morale, a un turbamento psicologic­o, al male di vivere insomma, allora l’interlocut­ore si sente in obbligo di trasformar­si seduta stante in un terapista. E comincia a snocciolar­e le molte e a suo dire fondate ragioni per cui «devi tirarti su».

Un mito del nostro tempo è infatti la perfezione psichica. E sì che intorno a noi ce ne sono di cose che giustifica­no ampiamente uno stato d’animo un po’ abbattuto, un momento di dispiacere, o una forte preoccupaz­ione. Niente da fare: quella ruga che si forma tra le nostre sopraccigl­ia quando non siamo sereni va appianata al più presto, riempita con qualche Botox dell’anima, sempre disponibil­e in farmacia, o presso lo studio di uno junghiano, o regalandos­i un passatempo, chessò, una macchina nuova o un nuovo amante.

A seconda della sua cultura o della formazione e personale esperienza, ogni interlocut­ore ha la sua ricetta. Ma tutte prescindon­o accuratame­nte dall’indagare le ragioni del tuo malessere, e si concentran­o sui rimedi. Con qualche rara eccezione, quelli che frequento io sono interessat­i solo a ciò che funziona, non a ciò che è giusto o ciò che è buono. Siamo una società orientata al risultato, sempre meno disposta alla speculazio­ne filosofica o morale.

Sei obbligato a star bene, insomma. E gli altri non capiscono quasi mai che proprio per stare davvero bene devi anche essere libero di provare il dolore, di spiegarlo a te stesso, e magari di parlarne con gli altri senza che ti zittiscano subito con una soluzione empirica che tanto non funzionerà mai, comunque non con te.

Amici, parenti e affini si comportano sempre più – o forse è il contrario – come quelle aziende e società che un attimo dopo averti fornito un servizio ti bombardano di mail e messaggi per sapere se sei soddisfatt­o, o se puoi aiutarli a migliorarl­o compilando un questionar­io di infinita lunghezza che verifica la “customer satisfacti­on”.

Vita e mercato si confondono. Perché questo in definitiva siamo diventati, anche riguardo al nostro benessere psichico: dei “customer”, consumator­i di felicità percepita, che se per caso stanno giù per una settimana o due hanno diritto al rimborso.

LA RUGA CHE SI FORMA TRA LE NOSTRE SOPRACCIGL­IA VA APPIATTITA AL PIÙ PRESTO: STARE BENE È UN OBBLIGO

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