VITE AI MARGINI DI DONNE DELL’EST MINACCIATE DAI MARITI IN PATRIA, VENGONO DA NOI PER PAURA DI MORIRE
R. taceva. Ho detto: non ti disturbo, dài, vado. No, mi ha fermata. Stai con me.
Ha spento la sigaretta, siamo entrate. Mi ha raccontato che non ce la fa più, che lavora troppe ore al giorno, che la domenica consegna i soldi alla proprietaria del negozio e lei commenta: tutto qua, così poco? Mi ha ricordato il marito di Delia nel film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, il dispotismo che esercitava su di lei. A R. è concessa solo una percentuale sui lavori, anche se apre e chiude il negozio, fa soltanto mezz’ora di pausa pranzo, spesso è lì anche di domenica. Più lavora e più guadagna, ma è sempre troppo poco perché possa concedersi un appartamento meno distante, che non implichi un lungo viaggio fino all’ultima fermata della metro e poi un bus. Le basta appena per la sopravvivenza.
Perché dalla Romania sei venuta in Italia?, mi permetto di chiedere.
Perché a 40, 50, 60 anni una donna deve trovarsi da sola alla periferia di una metropoli, a lavorare a cottimo, senza prospettive di miglioramento e con i figli lontani?
Per fuggire da mio marito.
Avevo paura di morire, mi ha detto.
Mi ha ricordato un’altra donna, P. Era polacca, mi aiutava a casa, era innamorata di Alice, la mia cagnetta di allora. Dato che aveva le chiavi, a volte, nel pomeriggio, mentre io ero in ufficio, andava a prenderla per passeggiare un po’, lasciava giusto un biglietto nel caso tornassi. Anche lei era venuta in Italia per colpa dell’ex marito. E a Roma abitava con un uomo che beveva; era possessivo, e la mortificava. Poteva capitare che rientrassi dall’ufficio e la trovassi seduta al tavolo, a fumare assente, la scopa e il secchio in mezzo al soggiorno. Mi sedevo accanto a lei e lei piangeva. Arrivava il mio compagno e lei continuava. Quando era più calma, P. usciva, noi sistemavamo gli stracci nel ripostiglio. Perché non torni in Polonia? Non posso, diceva. Lui mi ha tolto la dignità.
Anche R., a furia di parlare, si è calmata. Grazie di essere stata con me, mi ha detto. L’ho abbracciata. Ho pensato a quando Michela Murgia diceva a Saviano: non stare da solo. Ho pensato al coraggio di chiedere a un altro: stai con me. Ho pensato a quante donne subiscano violenze, persistenti, quotidiane, eclatanti o sottili, a quante donne siano costrette a fuggire da una terra, da una lingua, da una rete di affetti e a vivere ai margini – economicamente e socialmente – pur di opporsi alla paura di morire.
L’altra sera sono passata davanti a un negozio. La persona che ci lavora era seduta sulla soglia, fumava cupa una sigaretta. Ciao R., l’ho salutata, e poiché non mi ha sorriso come invece fa di solito ho chiesto: tutto ok? No, mi ha risposto. Ho provato a domandarle: che succede?, mentre il mio cane al guinzaglio tirava.
MI CHIEDO QUANTE SIANO COSTRETTE A FUGGIRE, LASCIANDO I FIGLI LONTANI: FINISCONO PER LAVORARE A COTTIMO E SENZA PROSPETTIVE
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