QUELLE “PICCININE” CANCELLATE DALLA STORIA
La scrittrice e lo sciopero delle bambine operaie tessili del 1902 a Milano. Un incontro a sorpresa
Sapete chi sono le “piccinine”, o, meglio ancora, le “piscinine”? Il nome vi dirà poco, soprattutto se non siete di Milano. Vi dà però un suggerimento: stiamo parlando di bambine, ed è proprio così. Il vezzeggiativo non rimanda a nessun episodio infantile o zuccheroso, ma a uno sciopero guidato da ragazze. La mattina del 23 giugno 1902 Milano assiste a uno spettacolo inedito. Centinaia di lavoratrici dell’industria tessile dai 6 ai 17 anni marciano e si accalcano sotto le finestre della Camera del Lavoro. Sono abituate a correre per la città con il telegramma, non quello postale, ma un pacco pesante, che contiene abiti su misura. Rivendicano il diritto a essere sì “piccole”, apprendiste ancora con un lavoro da imparare, ma non schiave. Non vogliono più subire gli abusi delle “maestre”, le superiori che le vessano senza pagarle e senza insegnare loro il mestiere. Soprattutto non vogliono più essere vittime di molestie da parte degli uomini. Il coraggio della protesta diventa una pietra miliare nella storia delle lavoratrici donne e della città di Milano, ma, nonostante tutto, non sarà molto ricordato. Silvia Montemurro, scrittrice lombarda della Valchiavenna, 36 anni, prende per mano queste bambine e le accompagna fuori dalla penombra in cui la Storia le ha dimenticate. Nel romanzo La piccinina (E/O) racconta Nora, adolescente che guida lo sciopero, ma vive anche l’esistenza di ogni ragazza della sua età, tra amori, amicizie, gelosie. La fascinazione per il personaggio nasce dall’osservazione del quadro La piscinina di Emilio Longoni. Montemurro ha a lungo studiato le “piccinine”, ma non ne ha mai incontrata uno, gli incroci magici del tour promozionale del libro la portano poi da Luisa Colombo, 89 anni, piccinina negli anni della Seconda Guerra Mondiale. Non è, ovviamente, una delle bambine dello sciopero del 1902, ma ha conosciuto bene quel mondo, le dinamiche, i rapporti. Ha vissuto un tempo in cui essere donne voleva dire avere meno diritti, meno opportunità e pochissime possibilità di scelta. Silvia e Luisa si incontrano a Milano, a casa di quest’ultima, nel quartiere di Niguarda. Un appartamento accogliente, luminoso, anche se dalle finestre si affaccia già il buio invernale. Luisa vive qui sola, è vedova da anni. Ama ripercorre il passato, i ricordi. Parla con voce allegra, anche quando racconta fatti malinconici. È incuriosita dal romanzo e dall’attenzione che le viene riservata.
Signora Luisa, anche lei è stata una “piccinina”. A quanti anni ha iniziato a lavorare?
«Molto presto, avrò avuto 8 anni, c’era la guerra e eravamo sfollati in montagna, in Val d’Intelvi, tra Como e la Svizzera.
Mia mamma voleva a tutti i costi che iniziassi un mestiere. Diceva che era una fortuna doppia: io imparavo e lei non doveva pagare perché ciò accadesse. Ai miei due fratelli maschi, un più grande e uno più piccolo di me, non veniva richiesto lo stesso».
Silvia Montemurro: anche la mia Nora aveva due fratelli maschi e anche io, sono pure quella di mezzo, capisco bene quanto sia difficile! Qual è stato il primo mestiere che ha imparato?
«Ho cominciato con una signora, molto anziana che mi insegnava a fare l’a’jour sull’orlo dei fazzoletti. Poi sono andata da una sarta e lì ero veramente una “piccinina”: imparavo a cucire, ma mi occupavo anche di raccogliere i fili e gli scampoli da terra, spazzavo, mettevo a posto gli spilli, facevo le consegne, preparavo il minestrone, anche se non era per me. Ho imparato a cucinare. Era faticoso, ma tutto scompariva quando riuscivo a “rubare” pezzi di stoffa per fare i vestiti alle mie bambole. C’era un’altra ragazza più grande, appena se ne andava o non guardava, io rovistavo nella casetta dei tessuti avanzati».
Le piaceva il lavoro? Le “piccinine” raccontate da Silvia Montemurro sembrano avere grande consapevolezza e orgoglio per il loro mestiere.
«Era così anche per me. La sartoria e il cucito mi sono sempre piaciuti, avevo manualità, ero portata. Ho continuato su quella strada anche da adulta. Ancora oggi mi capita di rivedere qualche mio lavoro e pensare “però, quanto ero brava”. Certo, non ho mai fatto altro, ma a 14 anni confezionavo già bellissimi vestiti». SM: quando ha interrotto gli studi?
«Ho finito le elementari, dopo la guerra siamo tornati a Milano e ho iniziato l’avviamento professionale, ma continuavo a lavorare: mia mamma mi aveva subito trovato un nuovo ingaggio. Ricordo delle camminate lunghissime nella nebbia fitta, come davvero non l’ho vista più, per andare da scuola al lavoro e poi rientrare a casa la sera, quando era già buio. Andavo ancora da una sarta, poi, in primavera, ero stata mandata anche da una signora che aveva uno studio di pittura per posare come “modella”».
SM: altra affinità con Nora e il ritratto di Emilio Longoni.
«Però non so se mi abbiano davvero dipinta alla fine, me ne sono andata. Non mi piaceva stare lì. A merenda mi davano sempre la torta di riso e io la odiavo. Un bel giorno non mi sono più presentata e ho ricominciato con un’altra sarta. Lì ho incontrato una ragazza con cui siamo rimaste amiche per tutta la vita, oggi lei non c’è più. Aveva un anno più di me, era esperta, mi ha insegnato moltissimo. Imparavamo più tra di noi che dalle padrone, dovevi rubare il mestiere, nessuna perdeva troppo tempo per spiegartelo. Però guai se sbagliavi un orlo, un ricamo. Quando vedevo dei lavori fatti male delle altre “piccinine” li disfavo e li rifacevo, a costo di faticare doppio. Non volevo che venissimo sgridate».
SM: accadeva lo stesso tra le “piccinine” dello sciopero del 1902.
Tra loro c’era solidarietà, ma anche rivalità. Ha mai provato o subito l’invidia di qualche ragazza che lavorava con lei?
«Sì, è capitato, ma ho stretto tante amicizie. La ragazza che però più mi è rimasta nel cuore non era una collega, ma una vicina di casa. Veniva da una famiglia molto istruita, di origine napoletana, aveva provato a convincermi a riprendere la scuola quando sono stata bocciata. Mi ero informata per iscrivermi ai corsi serali, ma ai miei genitori non importava granché e non mi hanno dato il permesso. Avrei studiato più a lungo, se ne avessi avuto l’opportunità. È un grande rimpianto, a quasi 90 anni mi dico che dovrei smettere di pensarci, ma è più forte di me». Quando era “piccinina” veniva pagata?
«No, mai. Solo poche lire, simboliche, ma quando ero già un po’ cresciuta. Era un modo per dirmi che il mio lavoro era gradito, non un vero compenso. La verità è che non sapevamo niente della vita, dei diritti. Aiutavamo la famiglia perché c’era bisogno, senza farci domande. Per uscire di casa ho dovuto sposarmi».
SM: le piccinine che l’hanno preceduta hanno segnato un passo importante, ma la strada è stata lunga. E non è certo ancora finita...
«No, ma le ragazze oggi hanno tante opportunità. Ne devono essere consapevoli e non devono sprecarle. Possono studiare, ma soprattutto possono costruirsi una carriera vera, in qualunque settore. Devono naturalmente trovare un lavoro per potersi mantenere, ma hanno la possibilità di guardare al futuro, di mettere le cose in prospettiva, di far sì che il loro mestiere non serva solo per vivere, ma possa anche gratificare. È una conquista enorme. Io, non ho problemi ad ammetterlo, vivo grazie alla pensione di reversibilità di mio marito. Eppure mi è sempre piaciuto lavorare, mi sono persino messa a fare la baby sitter a 60 anni! Purtroppo però non l’ho mai potuto fare nel modo giusto e con le tutele adeguate. Vorrei però vedere più passi in avanti anche tra gli uomini, ci sono ancora troppi mariti, compagni fannulloni sul divano».
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