Corriere della Sera - Sette

«PER NON SOFFRIRE CI CHIUDIAMO IN UNA GABBIA»

- DI ANDREA FEDERICA DE CESCO

La saggista americana: «Spesso siamo così bloccati, intrappola­ti nella versione di noi stessi che abbiamo costruito da non riuscire più a cambiarla»

In uno dei racconti di Lascialo gridare, lascialo bruciare. Saggi sulla bramosia di vivere e altre ossessioni, Leslie Jamison indaga la storia di un bambino, James Leininger, convinto di essere la reincarnaz­ione di un pilota d’aerei abbattuto dai giapponesi. Descrive il suo incontro con il padre del bambino, un collezioni­sta di armi. È a casa della famiglia di James, in Louisiana, e nota che sul piumone del signor Leininger ci sono dei proiettili sparsi. Jamison scrive: «Non volevo toccarli, ma li registrai mentalment­e come un “dettaglio rivelatore”. Il tatuaggio che correva lungo il mio braccio poneva domande su quest’uomo, su questo momento e su questi proiettili: Homo sum: humani nihil a me alienum puto, sono un essere umano: niente di ciò ch’è umano mi è estraneo». Quella stessa frase di Terenzio compare nell’esergo della sua precedente raccolta, Esami di empatia. Saggi sulle sofferenze degli altri (entrambe edite da NR edizioni e tradotte da Simona Siri).

La scrittrice, dalla sua casa di Brooklyn, solleva la manica sinistra e mi mostra la pelle nuda: la frase le percorre tutto l’avambracci­o. Jamison, classe 1983, la prima volta che l’ha sentita aveva 30 anni ed era a un incontro del programma di recupero dall’alcolismo (del suo percorso di disintossi­cazione ha scritto in Rinascere, Mondadori). Avrebbe poi scoperto che era la citazione preferita di Marx e che Montaigne l’aveva incisa sulle assi del soffitto dello studio. «Mi è piaciuta subito l’idea, come una sorta di orizzonte verso cui proiettars­i. In quel periodo avevo appena concluso una lunga relazione. Sentivo che stava nascendo una nuova versione di me. Volevo farmi un tatuaggio che mi ricordasse quella sensazione».

Nata a Washington DC da un economista e una nutrizioni­sta, ultima di tre fratelli, è cresciuta a Los Angeles, per poi vivere in Iowa, Nicaragua e New Haven. Ha fatto la panettiera, la commessa di GAP e l’attrice medica. Dopo aver esordito nel 2010 con il romanzo The Gin Closet, oggi è un’autrice bestseller del New York Times, accostata a Joan Didion e Susan Sontag, e insegna saggistica alla Columbia University.

In Lascialo gridare scrive di persone che si raccontano storie per sopportare le difficoltà. Lei quali storie si racconta per rendere la sua vita meno difficile?

«Mi sono convinta che in ogni esperienza ci sia qualcosa che posso pensare o sentire che altrimenti non avrei mai potuto pensare o sentire. Durante il lockdown, che ho trascorso in questo piccolo appartamen­to con mia figlia di due anni, ho evitato di impazzire soltanto perché pensavo: “Ci deve essere qualcosa che posso imparare da tutto questo”. Alla fine, quando sono riuscita a scriverne, per me è stato un meccanismo di sopravvive­nza».

I social sono il luogo perfetto per chi ama vivere dentro le storie. Ma a volte sia i social sia le storie possono

trasformar­si in gabbie.

«Le storie diventano gabbie quando rimaniamo talmente bloccati in una versione di noi stessi o della vita che abbiamo costruito da non riuscire più a cambiarla, da non essere più pienamente presenti nelle nostre vite vere. E così finiamo per negare ciò che sentiamo: neghiamo ciò che è difficile nel nostro matrimonio perché siamo impegnati nella storia della nostra relazione felice, o reprimiamo i modi in cui fare il genitore è estenuante».

Le è capitato di rendersi conto di essere rimasta bloccata in una storia?

«Sono cresciuta sotto l’incantesim­o delle storie di scrittori brillanti che erano anche terribili alcolisti, come John Berryman o Raymond Carver. Mi ero fatta l’idea che si potesse fare arte solo vivendo una vita autodistru­ttiva. Per riuscire a disintossi­carmi ho dovuto cambiare quella narrazione con una che non conoscevo, quella dell’artista che sta bene».

In Lascialo gridare racconta anche la storia di una fotografa che ha passato 26 anni a fotografar­e una singola famiglia in Messico. Questa storia ci spinge a chiederci cosa significhi creare arte dalla vita degli altri.

«Quando faccio arte a partire dalle vite degli altri mi offro di condivider­e il testo con chiunque ne faccia parte, prima che diventi pubblico. Dico: “Mi piacerebbe che tu lo leggessi e mi dicessi cosa ne pensi; se pensi che qualcosa sia diverso da come lo ricordi o se qualcosa ti turba, dimmelo. Non prometto che lo toglierò, ma ti ascolterò e lo modificher­ò”. Non sempre arrivo a qualcosa di cui l’altro è completame­nte soddisfatt­o, ma non penso che l’obiettivo dell’arte sia quello di rendere tutti felici». Quali sono invece i limiti rispetto alla sua stessa vita e a quella dei suoi cari?

«In tutto ciò che scrivo, non espongo mai la mia vita o quella di altre persone per il solo gusto di esporle. Lo faccio sempre perché sto esplorando qualche domanda esistenzia­le».

Chi sono stati i suoi maestri e cosa insegna ai suoi studenti?

«Il mio più grande maestro è lo scrittore

Charles D’Ambrosio. È stato il mio insegnante all’Iowa Writers Workshop. Mi ha detto che a volte il problema di un saggio può diventare il suo soggetto, e credo intendesse dire che a volte la cosa più difficile da scrivere è proprio la cosa più importante da dire. Un esempio potrebbe essere Esami di empatia: mentre scrivevo ho iniziato a lottare con l’idea di cosa sia l’empatia. Se significa essere in grado di immaginare la vita interiore di un’altra persona, è impossibil­e. Ho realizzato che quell’intera idea di empatia era solo una bugia. Ed è diventata la cosa che avevo bisogno di dire. Ai miei studenti, oltre a questo, ripeto: siate specifici. L’idea è di prendere un’affermazio­ne generica come “quest’uomo mi ha spezzato il cuore” e raccontare di essere tornata a casa da sola e di aver mangiato l’intera scatola di biscotti e fumato l’intero pacchetto di sigarette, e di come la bocca avesse il sapore di un posacenere. Quella bocca che sembra un posacenere è ciò che voglio leggere».

Qual è il livello di empatia nella nostra società?

«La cosa più difficile, e necessaria, è riuscire

«DEVE ESSERCI UNA TRANSIZION­E TRA IMPEGNO E DISIMPEGNO, ALTRIMENTI OGNI VITA DIVENTEREB­BE FUTILE SOFFERENZA EMPATICA»

a esercitare empatia in più direzioni in contempora­nea: provare empatia per due gruppi di persone che si stanno danneggian­do a vicenda, e non lasciare che un tipo di empatia annulli l’altro. Penso che il tipo di empatia che permette a diversi tipi di sofferenza di essere veri allo stesso tempo sia quello più essenziale in questo momento».

L’empatia esiste davvero?

«A volte è difficile sapere se stai provando qualcosa perché la senti o perché pensi che dovresti provarla. Ed è complicato capire in che modo sia utile empatizzar­e con la sofferenza di altre persone. Quando provo dolore per i genitori che hanno perso i loro figli a Gaza o per i sopravviss­uti che hanno perso i loro cari negli attacchi del 7 ottobre in Israele, a cosa serve il mio dolore? Forse a nulla. Credo che ci sia comunque un valore morale nel prestare attenzione e nell’ascoltare. E il mio lavoro consiste anche nel provare a capire quale sia questo valore morale. Penso anche che sia inevitabil­e proseguire con le proprie vite mentre altrove ci sono persone che soffrono, per quanto possa risultare straniante. Ma come potremmo vivere altrimenti? Ci deve essere per forza una transizion­e tra l’impegno e il disimpegno, altrimenti ogni vita si trasformer­ebbe in una futile sofferenza empatica».

Pensa che la scrittura le abbia dato la possibilit­à di creare la sua narrativa, come donna?

«Scrivere mi ha permesso di comprender­e la mia storia in un modo profondo, grazie a cui molte cose possono essere vere allo stesso tempo. Penso per esempio a una narrazione della maternità in cui posso dare spazio sia alla stanchezza sia alla gioia, senza lasciare che una di queste verità cancelli l’altra. Scrivere consente alla complessit­à dell’esperienza di trovare spazio sulla pagina, e anche per questo amo insegnare a persone che stanno lottando, che hanno attraversa­to molti traumi e stanno cercando di capire come raccontare le loro storie. La narrazione può essere un modo per conservare la propria esperienza in maniera diversa e vederla come profonda e significat­iva».

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