SIAMO SCIVOLATI NELL’ETÀ DELL’INQUIETUDINE MA SCEGLIERE SI PUÒ
L’età dell’incertezza, che ci ha confinati in un limbo grigio nei mesi del contagio epidemico, sembra essersi lentamente trasformata – e da quest’autunno, di colpo, cristallizzata – nell’età buia dell’inquietudine. Lo ha raccontato bene il sondaggio curato da Nando Pagnoncelli, pubblicato il 2 gennaio sul Corriere. «Preoccupazioni», «disagio», «difficoltà», «appannamento» sono le parole-chiave ricorrenti nella sintesi della ricerca. I temi classici dell’economia e del lavoro, da sempre dominatori nella classifica dell’ansia, ormai incalzati da un gruppo disordinato che incrocia e nomina «sanità», «immigrazione», «le guerre», «la perdita di potere d’acquisto», «l’ambiente» come fonte del proprio disorientamento. Non è tuttavia la rabbia il sentimento che definisce la reazione diffusa degli italiani, stretti dentro questo perimetro di segmenti critici, nazionali e internazionali. Bensì «lo sfinimento emotivo». Una stanchezza che scivola nella rassegnazione. Come se «l’andamento» fosse una curva impersonale che segue il suo corso e ci trascina giù. La grande speranza che si era raccolta nel Pnrr pare incagliata nel confronto tra burocrazie e ricatti di vicinato. Il governo fatica a trovare misure efficaci, l’opposizione non viene percepita in grado di proporne di migliori, anzi. I conflitti globali non fanno che complicarsi, un’escalation senza fine che ci spaventa e confonde e divide.
Tutto questo come se non avessimo scelta. Se non quella di spostarci a lato del fiume degli eventi – «eventi estremi» ci ha insegnato a dire il glossario climatico davanti ai cambiamenti fuori controllo – invocando un tetto, un bunker o la spianata di ogni impegno civile.
Eppure, abbiamo sempre la possibilità di scegliere e così di determinare stagioni buone/cattive. Perché ci sono state, sì, stagioni buone e stagioni cattive «determinate dalle grandi scelte dei protagonisti della scena internazionale», ha scritto Thomas L. Friedman ragionando sui suoi quasi trent’anni di analisi di politica estera per il New York Times. C’è stato Mikhail Gorbaciov, e la nascita della democrazia nei territori ex sovietici. Ci sono stati Rabin e Arafat, e quella stretta di mano davanti a Bill Clinton, il 13 settembre 1993, che sigillava gli accordi di Oslo. C’è stato lo sforzo di apertura della Cina voluto da Deng e dell’India sotto l’impulso iniziale di Singh. Ci sono stati Nelson Mandela, Barack Obama, il sogno in accelerazione di un’Europa unita democratica e liberale dopo il crollo del Muro di Berlino. Tutti questi passaggi storici – sempre Friedman – «erano il frutto di decisioni intelligenti prese sia dai leader sia dai cittadini». Abbiamo persino condiviso, a strappi, la convinzione di poter costruire una strategia globale per «salvare il Pianeta».
L’errore più grave oggi – alla vigilia di un eccezionale anno elettorale, 76 Paesi al voto – sarebbe quello di consegnare quella nostra inquietudine nelle mani, o ai piedi, di leadership inadeguate. Esercitate a lasciar sprofondare la propria incompetenza dentro un intreccio fitto di promesse insostenibili e ipotesi di complotto. Capaci solo di bucare la nostra stanchezza e distrazione alzando il volume fino ad assordarci o spegnerci, in fondo più pericolosi delle allucinazioni da Intelligenza Artificiale. La trappola è credere che non sia, mai, il momento per agire. Che scegliere adesso non sarebbe comunque abbastanza.
NON RABBIA, BENSÌ «SFINIMENTO EMOTIVO» È LO STATO D’ANIMO PIÙ DIFFUSO. IL RUOLO DELLE DECISIONI DI LEADER E CITTADINI