IL PRIGIONIERO SPEDITO NELL’ARTICO FA ANCORA PAURA ALLO ZAR PUTIN
Non ha etichette ed è stato il primo leader russo 2.0, i giovani gli credono (e lo voterebbero): rimpatriò nonostante i tentativi di ucciderlo e venne arrestato. L’ultima mossa del Cremlino? Farlo sparire in una colonia penale segreta, ma...
Alexej Navalny non c’è più, ma è come se ci fosse ancora. Detenuto in una colonia penale nel remoto Artico russo, dove è stato ritrovato dai suoi legali dopo tre settimane senza nessuna notizia, nessun cenno sul luogo della sua detenzione. Non è la prima volta che succede, e accadrà ancora, con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali del prossimo marzo. Impossibilitato a comunicare con l’esterno. Isolato, lontano da tutto. Chiuso in una cella di due metri per tre. Forse, non ne uscirà mai più. È nelle mani dei suoi nemici giurati, che hanno tentato di eliminarlo almeno un paio di volte. Poteva rimanere all’estero, dove sarebbe stato osannato come la voce più forte contro la verticale del potere che governa la Russia da oltre vent’anni. Ha scelto di tornare, ben sapendo che il suo destino sarebbe stato il carcere.
Era stato condannato per la prima volta a cinque anni di reclusione nel luglio 2013, appropriazione indebita di patrimonio statale della società pubblica Kirovles. Accuse misteriose, atti mai resi pubblici. Dal 2011 al 2018 era stato condannato per altre dieci volte agli arresti amministrativi, in buona sostanza per il reato di adunata sediziosa. Nel gennaio del 2021, subito dopo il suo rientro in patria dalla Germania, è stato fermato per “violazione delle regole”. Non si era presentato in questura nelle date stabilite. Aveva una buona ragione per non esserci. Era in ospedale, tra la vita e la morte, dopo essere stato avvelenato dagli agenti di una squadra speciale del Fsb, il servizio segreto russo.
Nel marzo del 2022 è riconosciuto colpevole per truffa aggravata, e condannato a 9 anni di reclusione. Alla fine del maggio di quell’anno, gli è stata presentata l’accusa di aver creato “una comunità estremista”. Il 26 aprile 2023 gli sono stati concessi 10 giorni per leggere i 196 volumi della nuova causa nei suoi confronti. Il 4 agosto è stato condannato ad altri
19 anni di reclusione. Ma è assai probabile che la pena venga commutata in ergastolo, grazie a una legge della Duma che sembra fatta su misura per lui. Senza contare il fatto che Darya Trepova, la giovane donna che il 7 aprile del 2023 a San Pietroburgo ha fatto saltare in aria il blogger Maksim Fomin, detto Tatarsky, avrebbe confessato, chissà come mai, di aver agito anche dopo aver recepito gli appelli a compiere atti terroristici che le sarebbero stati lanciati da parte dei suoi collaboratori emigrati all’estero.
La ragione dell’accanimento di un uomo sepolto vivo o quasi non sta nelle inchieste giornalistiche del suo gruppo di lavoro che hanno svelato le incredibili ricchezze degli uomini del Cremlino che predicano frugalità al loro popolo mentre accumulano ville e yacht nelle località più esclusive del mondo. Quella è ormai acqua passata, non c’è più nemmeno bisogno di fingere alcun francescanesimo, non esistendo più alcuna opposizione. La verità è molto più semplice. Per anni, Vladimir Putin ha temuto il confronto con lui, con la sua popolarità, con la sua capacità di raggiungere un pubblico a lui inaccessibile, quello dei giovani. Forse, questo timore esiste anche oggi. Perché Navalny è ancora attuale. La sua presenza incombe. Il ricordo di quel che è stato capace di fare aleggia nella memoria collettiva e in quella di Putin, che in un ex ragazzo divenuto il primo politico russo 2.0, armato soltanto di un iPhone e dei suoi canali social, ha riconosciuto la propria nemesi.
Il 20 agosto del 2020, quando fu avvelenato, stava tornando a Mosca da un viaggio elettorale a Tomsk e Novosibirsk, le due città universitarie della Siberia dove soffiava più forte, per quanto possibile, il vento del dissenso. Da lì a poco ci sarebbero state le elezioni locali, ennesimo banco di prova della strategia del “voto intelligente”, la sua invenzione più importante: concentrare le preferenze dell’opposizione sul candidato con maggiori possibilità di farcela, a prescindere dal suo colore politico. Alle elezioni parlamentari del 2011, quando la sua carriera di nemico pubblico numero uno del Cremlino era appena agli inizi, aveva impedito a Russia Unita di arrivare all’agognato cinquanta per cento.
È questa trasversalità a rendere Navalny ciò che ancora oggi continua a essere. Nato nel 1976, figlio di un militare e cresciuto in una guarnigione, è diventato il rappresentante degli elettori che dell’Unione sovietica hanno un vago ricordo, e soprattutto non la rimpiangono, non vivono nel mito della potenza perduta. Con i suoi slogan taglienti, come dimenticare la definizione di “nonno nel bunker” affibbiata a Putin, prende con sé liberali, comunisti, anche nazionalisti, chiunque sia contrario al potere di oggi. Crea meme a tutto spiano.
Fa portare in manifestazione gli scopini del water comprati al discount, che richiamano quelli di lusso scovati nella villa di Putin a Sochi. Per anni, prolifera su YouTube. Diventa una specie di marchio. È il ragazzo della porta accanto che durante la breve stagione dei raduni di massa contro la staffetta Medvedev-Putin incita i passanti a unirsi al corteo: «Non rimanete fermi come dei mufloni». Si è sposato giovane, come da tradizione, vive con moglie e due figli in un casermone di Maryno, all’estrema periferia di Mosca. Non è un reduce dell’Urss, non è un intellettuale, non è un oligarca. Non ha etichette. Pochi mesi prima dell’attentato di cui è vittima, la sua pericolosità viene certificata da una ennesima legge ad personam, che proibisce la candidatura alle presidenziali alle persone che hanno risieduto all’estero. E qui cominciano i problemi. Soprattutto nostri. Diciamoci la verità. Poco prima del suo avvelenamento, Navalny veniva ancora giudicato con una certa sufficienza dai media internazionali. Perché se interpretato con il metro di giudizio occidentale, Navalny è un populista, uno che prende con sé tutti, che non fa distinzioni. Al quale viene da sempre rimproverato il peccato di gioventù del nazionalismo grande-russo e le dichiarazioni sulla Crimea, che non andrebbe restituita all’Ucraina, perché «non si tratta di un panino al prosciutto che prima si prende e poi si restituisce». Aggiungeteci gli studi a Yale come membro selezionato del “Greenberg World Fellows Program”, un programma creato nel 2002 per il quale vengono selezionati ogni anno su scala mondiale appena 16 persone con caratteristiche tali da farne dei “leader globali”.
Ed ecco i ditini alzati e i sospetti su di lui, alimentati dalla propaganda del Cremlino, che lo presentava come un personaggio ambiguo e un agente straniero al soldo dello Zio Sam, alla quale per molto tempo molti media internazionali hanno abboccato. Salvo poi ricredersi, davanti a un gesto eroico come la scelta di tornare in patria, ben sapendo cosa lo aspettava. Questa è la differenza con tutti gli altri. Non è un esule di lusso, come Gerry Kasparov o altri connazionali espatriati. È ancora un protagonista della politica russa, l’unica voce forte della dissidenza, mentre quelli “fuori” oggi si dividono sull’opportunità del voto utile, l’unica idea partorita da una opposizione annientata e sterile al tempo stesso. Non si è limitato a parlare. Ha sempre ottenuto risultati. Le elezioni del 2020 in Siberia furono un trionfo. Proprio in questi giorni, Ksenya Fadeeva, la coordinatrice del suo movimento a Tomsk, è stata condannata a nove anni di carcere per “estremismo”. Nonostante il carcere e una voce sempre più flebile, Navalny fa ancora paura.