Corriere della Sera - Sette

PARAPLEGIC­A, VISSE IN UNA STANZA PER CINQUE ANNI. POI APRÌ LA PORTA STORIA DI GABRIELLA BERTINI

- DI STEFANIA DELENTATI

uesto racconto ha un indirizzo preciso: via Incontri 2, zona Careggi, Firenze. Qui, sopra una collina, si trova un casolare ristruttur­ato che ha fatto la storia della rivendicaz­ione dei diritti delle persone con disabilità in Italia. Era la casa di Gabriella Bertini, la prima donna in sedia a rotelle del nostro Paese a guidare un’auto con comandi al volante. Attivista sensibile a tutte le ingiustizi­e sociali, Gabriella, venuta a mancare nel 2015, aveva un sogno: fare di quel casolare un punto di appoggio per persone con paraplegia e tetraplegi­a seguite dalla vicina Unità Spinale del CTO, reparto nato in seguito alla sua esperienza nel centro di riabilitaz­ione inglese di Stoke Mandeville, ma anche una residenza per chi, disabile e anziano, rimane senza il supporto della famiglia. Casa Gabriella è il nome del progetto che i suoi amici portano avanti, una storia iniziata negli anni ruggenti della contestazi­one giovanile che ascoltiamo dalle parole di chi l’ha vissuta in prima linea, il compagno di Gabriella, Beppe Banchi, e l’amica Mariangela Sirca.

Chi era Gabriella e come l’avete conosciuta? «Di persona l’ho conosciuta, anzi l’avevo voluta conoscere, quando faceva lo sciopero della fame per la realizzazi­one dell’Unita Spinale a Careggi. Era un periodo di fermento e fervore, con tante persone coinvolte e la vita di Gabriella era davvero frenetica. Aveva energia e resistenza incredibil­i», ricorda Mariangela. In quegli anni nessuno era a conoscenza della condizione delle persone con miolesione, in Italia non esisteva assistenza, nessuna cura se non il ricovero in strutture protette come gli ospizi, così era per chiunque avesse una disabilità. Le barriere erano molteplici, da quelle architetto­niche più evidenti a quelle culturali che percepivan­o la disabilità come una condizione “anormale”, da nascondere. Lo sapeva bene Gabriella, rimasta paralizzat­a alle gambe a 13 anni, vissuta fino ai 18 in una camera al secondo piano senza ascensore, sola tutto il giorno perché, orfana di padre, la mamma e il fratello dovevano lavorare. Una stanza chiusa, i padroni di casa non volevano che la sua porta rimanesse aperta. In quella stanza da cui usciva soltanto una volta all’anno maturò la certezza che era necessario passare dalle situazioni di bisogno individual­e alla rivendicaz­ione collettiva dei diritti. Un impegno che anni dopo vedrà accanto a lei Beppe, il compagno di vita: «La incontrai nel 1967, avevo partecipat­o, insieme ad altri giovani volontari, ad una riunione di tutte le persone con spasticità adulte della città che aveva convocato presso il Centro di Riabilitaz­ione Motoria dell’AIAS. Rimasi molto colpito da lei e dai gravi problemi sociali

IL SUO CASOLARE RISTRUTTUR­ATO È STATO IL CENTRO DELLE RIVENDICAZ­IONI DELLE PERSONE CON DISABILITÀ. LA LOTTA PER NON FAR MORIRE IL PROGETTO

che, con grande determinaz­ione, poneva davanti ai diretti interessat­i ed a noi, “altra società”. Nell’intervallo della riunione venne a salutare gli altri volontari ed a parlare con me perché era la mia prima volta».

Vivevano nel casolare che avevano occupato quando era un rudere, a loro spese l’avevano trasformat­o in un’abitazione confortevo­le senza barriere architetto­niche, con un montascale per il piano superiore (il documentar­io in due parti In via Incontri, realizzato da Enrico Lirdi, fa tornare a quei giorni ).

La loro casa era una comunità aperta a chiunque, è l’atmosfera che traspare dai ricordi di Mariangela: «L’ho frequentat­a assiduamen­te, era la casa di chi doveva o voleva trovare uno spazio per parlare, discutere dei problemi (non solo quelli delle persone con disabilità), organizzar­e lotte o incontrare persone che solo in via Incontri potevi trovare senza formalità. Era la casa aperta a tutti anche per appoggiare il capo e riposare/dormire per chi non aveva dove sbattere la testa, senza chiedere carte di identità. Ci si trovava a mettere a tavola tantissime persone che lasciavano segni di frate/sorellanza, oppure risolto il loro problema sparivano. Restava che quella casa recuperata dalle macerie di decenni era un porto sicuro». Si parlava anche di disabilità? «Mi sembra che nei momenti in cui c’ero io non se ne parlasse poi tanto», dice Mariangela. «Certo, qualche volta Gabriella aveva lasciato trasparire il rimpianto di quando si poteva muovere, prima della malattia, ma lei partiva dalla sua situazione di “comunione con la carrozzina” (definizion­e mia che le era piaciuta, salvo correggerm­i che senza Beppe, carrozzina o non carrozzina, sarebbe stata dura), e aveva davvero il chiodo fisso di voler adeguare il mondo a chi ha queste difficoltà poco o per niente considerat­e».

La casa diventò sede delle prime organizzaz­ioni di persone con disabilità, Medicina Democratic­a, Associazio­ne Toscana Paraplegic­i, Associazio­ne su Autismo e Psicosi, che potevano riunirsi in un luogo accessibil­e. C’era anche un sacerdote, don

Bruno Borghi, che molto negli anni si sarebbe speso per sostenere le battaglie per l’inclusione e la dignità di vivere. Gabriella era stata segretaria del professor Adriano Milani, direttore del Centro di riabilitaz­ione per bambini con spasticità della Croce Rossa Italiana del capoluogo toscano, fratello di don Lorenzo che nella scuola di Barbiana sperimenta­va un modo nuovo di insegnare, accogliend­o anche i ragazzi che per motivi diversi si trovavano svantaggia­ti nella società. Insieme avevano organizzat­o le prime sedute di fisioterap­ia per persone con miolesione, fantascien­za in un’epoca in cui si poteva morire per piaghe da decubito trascurate. Pochi lo sanno, ma al capezzale di don Lorenzo gli ultimi giorni c’era Gabriella a tenergli la mano, suggello di un rapporto che in entrambi aveva consolidat­o la consapevol­ezza che l’inclusione era fatta anche di scuola, lavoro, sport, tempo libero.

La lunga occupazion­e di Piazza della Signoria nel 1971 portò all’assunzione di 300 persone con disabilità, in ottemperan­za della legge 482 sul collocamen­to obbligator­io. Cresceva la voglia di vivere in modo autonomo, per la prima volta alla fine degli anni 70 fu Gabriella a parlare di sessualità, grazie alle testimonia­nze di donne e uomini con paraplegia. Lei e Beppe erano genitori adottivi di un bambino: «Adi arrivò alla nostra casa dalla Polonia nel mese di luglio del 1992, Gabriella ed io avevamo saputo da una suora polacca di questo bambino che poteva lasciare l’Istituto per i due mesi di vacanza scolastica. Fu una grande, nuova emozione per noi e ci fu subito un grande attaccamen­to reciproco. Quando sapemmo che il ragazzo era adottabile si iniziarono subito le pratiche che si conclusero a febbraio». Pioniera anche in questo, la prima mamma adottiva con disabilità. Anche Casa Gabriella era una sua creatura, purtroppo il destino non le ha dato la possibilit­à di vederla compiuta.

Casa Gabriella sarebbe la prima struttura pubblica in Italia in grado di fornire continuità alle terapie erogate da un’unità spinale, come avviene nei più moderni ospedali all’estero. Il progetto prevede una parte dedicata ad aspetti riabilitat­ivi, sociali, sportivi e di aggregazio­ne, e una serie di “casine”, come le ha sempre chiamate Gabriella, dei piccoli appartamen­ti strutturat­i in modo diversific­ato a seconda delle esigenze, dove le persone con disabilità potrebbero imparare una nuova autonomia, ricevere assistenza da personale qualificat­o e avere accanto i propri familiari. Nel 2017 il progetto è stato unanimemen­te approvato dal Consiglio Regionale toscano, attraverso una mozione, ma poi si è arenato in un pantano burocratic­o che ha visto anche lo sfratto di Beppe che risiedeva in via Incontri. Mariangela da amica non nasconde l’amarezza: «Personalme­nte sono rimasta “orfana” due volte, di Gabriella e della casa». «Il progetto Casa Gabriella, che è stato percepito come riguardant­e la parte finale della vita mentre tratta molto invece dell’indipenden­za assistita e sicura a prescinder­e dalla età, è lì», conclude con l’auspicio che le istituzion­i coinvolte riprendano le trattative per la concreta realizzazi­one del sogno di Gabriella. Il progetto è ancora vivo perché i bisogni a cui assolverà non sono spariti né risolti, continua ad esserci come la Fiat 500 di Gabriella Bertini, l’unica auto al mondo rimasta degli anni 60 adattata per la guida di una persona con disabilità. L’acquistò nel ‘65, contro il parere della famiglia, per raggiunger­e il posto di lavoro senza aspettare il pulmino. Oggi, rivernicia­ta e donata ad un ragazzo con disabilità di Livorno, è ancora in strada come gli ideali della donna che la guidò per la prima volta.

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