ALBUM DI FOTOGRAFIE O FOTOGALLERY? IO, UGUALE AL ME DI 7 ANNI, PREFERISCO RITROVARMI SULLA CARTA
Nelle vacanze di Natale ho sfogliato qualche vecchio album di foto. Neanche tanto vecchio poi, al massimo una ventina d’anni. Abbastanza però da giustificare l’uso della carta. Oggi le fotografie si fanno con uno smartphone e lì si conservano. Eppure il primo iPhone non è nemmeno maggiorenne, proprio questa settimana compie 17 anni. Lo annunciò Steve Jobs a San Francisco, giurando che avrebbe «reinventato il telefono». Si sbagliava per difetto: ha reinventato il mondo.
Dunque, cari ragazzi nati digitali, dovete sapere che non molto tempo fa andavamo in vacanza con le macchine fotografiche, poi quando tornavamo a casa portavamo il rullino da un fotografo professionale, il quale alcuni giorni dopo ci consegnava stampate su un rettangolo di carta le immagini che avevamo scelto, e noi poi le incollavamo con dei triangolini di scotch biadesivo su un grande libro, ma con le pagine bianche. I più romantici di noi ci scrivevano a fianco anche una didascalia, un pensiero, un ricordo.
Si può discutere a lungo se sia più evocativa ed emozionale una foto su supporto cartaceo, debitamente ingiallita e arricciata come quelle che finiscono negli album, o una fotogallery con tanto di musica di sottofondo che una “app” del mio cellulare mi propone con frequenza settimanale per ricordarmi i miei momenti a suo giudizio migliori, raggruppati sotto titoli icastici tipo Al mare, All’avventura, Accadde oggi. Ma non è di questo che volevo parlarvi. È di come ci si vede sfogliando un album di foto del passato.
Quasi tutti si stupiscono: «Mamma mia come eravamo diversi», è l’esclamazione più frequente durante l’“amarcord”. E invece io, e la cosa comincia a preoccuparmi, mi ritrovo esattamente uguale. Non dico dello stesso peso o con la stessa faccia, questo no ovviamente. Ma sono io, esattamente come mi sento adesso, e potrei dire perfino che cosa pensavo nel momento dello scatto.
Credo che abbia a che fare con un dilemma di cui ho già parlato in questa rubrica, e sul quale psicologi e scienziati dibattono da tempo: gli esseri umani rimangono gli stessi che erano a sette anni, o cambiano nel corso dell’esistenza così tante volte da diventare persone diverse? Ci sono quelli che avvertono una forte connessione con il loro sé da bambini, e quelli che sono invece convinti che la loro vita non sia un’unica storia con una sua trama, ma una serie di episodi. Ecco, io appartengo alla prima categoria: ogni mattina mi risveglio identico a me stesso.
Per qualche strana ragione, questa sensazione è per me più forte al tatto di una foto. La carta mi stimola qualcosa di analogo ai ricordi olfattivi. E mi fa tornare in mente dei versi di James Fenton che sento molto vicini:
«This is where I came from./I passed this way./This should not be shameful./Or hard to say./
A self is a self,/It is not a screen./A person should respect/ What he has been./
This is my past/Wich I shall not discard./This is my ideal,/ This is hard».
È proprio così. A self is a self. E si vede meglio che in un selfie.
L’IMMAGINE SUL LIBRO È COME UN RICORDO OLFATTIVO. STO CON I VERSI DI JAMES FENTON: A SELF IS A SELF (E SI VEDE MEGLIO CHE IN UN SELFIE)