SPOSA DI QUALCUNO, MADRE DI CHIUNQUE «NON SAPEVO COSA FOSSE LA VOCAZIONE A ESSERE ME»
uel che dico contro la logica biologica del patriarcato eteronormativo di Stato — che identifica la maternità con la gravidanza e la famiglia col sangue — lo dico da madre d’anima, da membro di una famiglia fatta di legami altri. Le uniche certezze che ho hanno a che fare con la mia esperienza personale e per il resto ho solamente domande.
Ma sono domande che sento la responsabilità di porre in questo preciso punto della storia, mia e della comunità in cui mi riconosco.
C’è un brano, risalente ai primi anni della mia vita di scrittrice, che mi torna davanti agli occhi a ognuno dei miei molti traslochi, di casa e di computer. Si tratta di poche pagine in cui ho scritto, come fossi me stessa e un’altra allo stesso tempo: «Sposa di qualcuno, madre di chiunque, io non sapevo cosa fosse la vocazione a essere me». Ho formulato quella frase quindici anni fa e ancora oggi non so se nei lustri che sono trascorsi quella ragazza (che forse sono io) ha capito del tutto in cosa consistesse la sua vocazione. Ma credo che essere madre, scegliermi dei figli che mi hanno scelta — e che poi sono diventati fratelli, mentori, allievi, complici, in certi casi addirittura paterni nei miei confronti, destabilizzando persino la mia idea iniziale di filiazione d’anima — mi abbia fatto capire alcune cose, o almeno interrogarle fecondamente. Sono cose legate a due questioni interconnesse nel discorso che sto facendo. Una è quella delle famiglie che, come la mia, si definiscono (o meglio, lanciano una sfida alle definizioni) adottando il termine queer, che complica ma chiarisce i legami familiari fuori dal familismo e aiuta a dare un senso mai definitivo alle identità individuali e collettive. L’altra è quella della cosiddetta gestazione per altrə (formula comunemente abbreviata in gpa), che evoca problemi politici, religiosi, economici e morali alla radice di ciò che significa essere donne osando immaginarsi fuori dalla maternità biologica. Entrambe rivelano i limiti del concetto di normalità e offrono spunti per immaginarci, come società, in modi nuovi, che credo saranno più abitabili per chiunque avrà il coraggio di sfidare lo stato statico dello Stato. Non per includere, in quel che già offre, chi rimane ai margini delle sue norme, ma per ridisegnare daccapo ciò che quelle norme hanno definito in confini spesso illogici, a partire dalle parole e dai luoghi comuni
«CREDO CHE ESSERE MADRE, SCEGLIERMI I FIGLI CHE MI HANNO SCELTA, MI ABBIA FATTO CAPIRE ALCUNE COSE O MI ABBIA INDOTTA A INTERROGARLE FECONDAMENTE»
che ce le rendono familiari come il guinzaglio di un cane invecchiato.
Forse la mia vocazione a essere me consiste proprio nel domandarmi, con tutti i mezzi condivisi di cui ho il privilegio di disporre, chi sia una madre e mai di chi sia; nel non rassegnarmi all’idea di famiglia a cui mi avrebbero destinata la mera biologia e le leggi dello Stato. Sulla questione della gestazione per altrə in fondo, in un modo o nell’altro, intervengo da anni, ma prima degli ultimi che mi restano da vivere non l’avevo mai fatto dalla prospettiva di aver parlato pubblicamente della mia famiglia senza legami di sangue né stati interessanti. Comincerò da quella dunque, per tornare poi al dibattito sulla surrogazione con occhi nuovi e avendo rivelato qualcosa in più su quel che intendo con la premessa: «Lo dico da madre queer».