CLAUDIO ABBADO
IL DIRETTORE-PADRE CHE PORTÒ I SUOI 128 ORCHESTRALI A “CASA” AGNELLI
Asette anni aveva sentito i Notturni di Debussy alla Scala diretti da Guarnieri, e ne era rimasto affascinato. «Da grande voglio ricreare anch’io quella magìa» scrisse sul taccuino. «Da allora ho sempre pensato di realizzare questa musica. E un giorno l’ ho fatta. Ecco, io vado avanti per sogni, che poi diventano idee, progetti». Claudio Abbado era appassionato cultore del suo talento che perseguì con metodo prioritario su tutto il resto fino a diventare grande e carismatico direttore d’orchestra del Novecento. Ma sapeva anche mettersi al servizio delle doti altrui convinto come era che il talento non vada sprecato ma amato e coltivato, innaffiato ogni giorno come una pianta. «Il talento è un’avventura mistica, che devi riuscire a vivere con semplicità e ironia, senza mai sentirti prigioniero delle sue seduzioni» aveva confessato ad Antonio Galdo che era andato a trovarlo per un libro immaginifico sulle dissipazioni contemporanee (Non sprecare) nella sua casa sul mare di Alghero dove il Maestro curava le sue piante ombrose, «gli alberi felici», con la stessa passione che riservava agli spartiti. E dove si diceva, appunto, molto dispiaciuto per uno Stato come il nostro che dissipava tesori e talenti, incapace di valorizzarli. Convinto prima di altri, e a differenza di taluni, che la cultura possa rendere ricco un Paese.
E al suo talento e alla sua musica Abbado non pose limiti proprio con l’intento di ampliare i confini della cultura, prima rivoluzionando il repertorio della Scala, di cui divenne direttore nel 1968, quando all’ indiscussa passione per Verdi e Rossini, introdusse quella per Mahler, Berg, Stravinskij, Schönberg, Nono, Sciarrino, Stockhausen. E poi aprendo il tempio della musica a un pubblico più ampio: «La musica è necessaria alla vita. Per questo motivo da sempre insisto sull’importanza dell’educazione musicale, che in ultima analisi diventa educazione dell’uomo» questa la sua visione espressa alla giornalista Giuseppina Manin autrice del libro a lui dedicato, Nel giardino della musica. Così avviò un’operazione di alta e vasta popolarizzazione, condotta in sintonia con il sovrintendente di allora Paolo Grassi, che suscitò entusiasmi e polemiche, fra difficoltà e attacchi che lo portarono a lasciare nel 1986 la Scala per Vienna. E però avrebbe rifatto tutto, come avrebbe poi detto a Paolo Valentino sul Corriere: «Suonare nelle fabbriche, aprire la Scala agli studenti e ai lavoratori,
cose che ho fatto perchè le ritenevo giuste, non perchè fossero di destra o di sinistra. Quando protestavo contro la guerra del Vietnam insieme a Maurizio Pollini o contro i colonnelli greci, tutti facevano titoli sui musicisti rossi, però quando protestai contro i carri sovietici a Praga esponendomi personalmente con Kubelik e con Daniel Barenboim, nessuno disse nulla perché non faceva comodo né a sinistra né a destra. Ecco perché rifarei tutto. Pensi che una volta a Vienna mi sono trovato un musicista dei Wiener il quale, alla fine della Settima di Bruckner, mi disse: Meraviglioso, non mi sarei mai aspettato che un italiano di sinistra come lei potesse dirigere Bruckner in modo così profondo. Poi scoprii che ai tempi era stato un fervente nazista».
Direttore di grande fascino personale per l’intensità dell’esecuzione e per la definizione della gestualità, oggetto di piccolo culto per la zazzera, le camicie, le mani, gli occhi, sapeva entrare anche in simbiosi con gli orchestrali. Quando dopo Vienna è diventato direttore della Berliner Philharmoniker, ambito traguardo mai raggiunto prima da un italiano, abbraccia la tradizione del direttore-padre: «L’ orchestra ha sempre avuto queste figure che stanno per tanto tempo, quasi una vita, e che stabiliscono con gli orchestrali un rapporto umano molto profondo. Si viaggia, si suona, si mangia, si scherza, si fa tutto insieme. Comunanza che non rinnega quando nel 1994 inaugura con i suoi Berliner l’Auditorium del Lingotto a Torino, e accoglie l’invito dell’Avvocato Gianni Agnelli per un dopo concerto a casa sua, specificando però che non sarà solo: «Con me ci sono 128 orchestrali. Dove vado io, vengono anche loro», violando così la sacralità dell’invito a Villa Frescot. L’avvocato serafico capisce al volo, e sposta soltanto la location al castello del Valentino, perché a casa non sarebbero stati tutti comodi, come ha raccontato Giorgio Garuzzo, ex ceo di Iveco, nel libro Fiat: i segreti di un’epoca.
Sempre sorvolando sulla rivalità con Riccardo Muti (“una leggenda”), Abbado ritorna a suonare a Milano dopo 26 anni nel 2012, deluso soltanto di non essere riuscito a ottenere il suo cachet verde: 90 mila alberi per la città. E Milano, quando Abbado è morto, il 20 gennaio 2014, lo ha riabbracciato con nostalgico affetto accorrendo in Piazza Scala chiusa al traffico per l’occasione: 8 mila persone raccolte in silenzio mentre nel Teatro vuoto, a porte aperte, l’amico Barenboim suonava la marcia funebre di Beethoven.