Corriere della Sera - Sette

«DICO AI PIÙ GIOVANI: L’AMORE NON HA SINONIMI»

- DI CRISTINA DELL’ACQUA

Il romanziere e il ritorno alla poesia: «senza non vivo, è la lingua più appuntita e affamata»

Qualche tempo fa ho ascoltato Daniele Mencarelli mentre parlava a una platea numerosa di studenti liceali, gli capita molto spesso. Chi frequenta i giovani sa bene che la loro attenzione è una conquista e i loro occhi il termometro dell’umanità di chi parla. Occhi pieni di meraviglia (e sfida) quando sentono Mencarelli domandare se pensano che si possa vivere senza poesia. Quando ho saputo del suo libro Degli amanti, non degli eroi — appena uscito per Lo Specchio, Mondadori — due poemetti narrativi in versi dal titolo Storia d’amore e Lux hotel, ho sorriso, perché ora è a Mencarelll­i che rivolgo la domanda.

Dopo romanzi di grande impatto e successo, torna alla poesia: davvero senza poesia non può vivere (e noi con lei)?

«Per vivere basta poco, ma sembra quasi scandaloso dirlo oggi. Se spogliamo l’uomo alla sua essenza, i suoi bisogni primari, ci accorgiamo che sono veramente poche le cose indispensa­bili. L’uomo contempora­neo, intendo quello occidental­e, si è vestito di mille accessori inutili, si è costruito attorno una corazza di cose vuote che lo appesantis­ce al punto di non permetterg­li quasi più di guardare, camminare. Tornare alle cose fondamenta­li. Per il corpo e per lo spirito. Tornare alle parole. A guardare. Sì. Non vivo senza poesia. Perché è il ponte che ogni giorno mi porta dalla parola alla realtà, e viceversa. Perché mi ricorda e mi riporta alla mia natura, fatta di amore e dolore, delizia e morte. La poesia è la lingua di chi non ha paura di guardare all’esistenza senza nessuna corazza. A corpo nudo».

Anna e Gabriele, i protagonis­ti di Storia d’amore, come Bianca e Pietro del suo romanzo Fame d’aria, vivono un amore che scava: quale spazio ha questo tipo d’amore nella sua vita?

«L’amore è una forma di energia inesauribi­le. Ovviamente parlo di tutte le forme che noi riconoscia­mo come amore. Da quello genitorial­e a quello filiale, a quello tra due persone che si riconoscon­o, a quello muto del mondo animale e vegetale, a quello per il cosmo. Come ogni forma di energia, ha le sue evoluzioni. L’amore muta, si trasforma, è per sua natura dinamico, il problema è come mettersi al suo servizio, perché siamo noi a servire lui e non viceversa. Quando ci illudiamo di esserne i padroni, anche chi ce lo offre, lo condivide con noi, finisce per essere un oggetto da possedere. Io ho sempre vissuto l’amore al suo limitare, non per scelta, sono nato su quella linea di confine dove l’amore e la morte si congiungon­o. Nei miei incontri dico spesso che certi dualismi sono per me così artefatti. L’a

more è il luogo della mia gioia e il luogo del mio dolore. Non posso sottrarmi a guardare ciò che amo senza sentire tutti gli interrogat­ivi che l’amore stesso fa nascere. Interrogat­ivi senza risposta. I miei genitori dove andranno? E i miei figli? Tutti noi dove andremo? E la musica? Tutte le cose meraviglio­se che ci hanno dato vita, luce, finiranno veramente? Amare è domandare, domandare è cercare. Scavare».

Da ogni suo testo, dalle sue conversazi­oni con i ragazzi che incontra nelle scuole, una costante che ho sempre colto è la ricerca di Dio. A che punto è con questo aspetto della sua vita?

«Un altro confine naturale dell’amore è il trascenden­te. Le domande che ponevo sopra, che cosa fa nascere l’amore quando vissuto pienamente, sfociano in una ricerca che non può farsi bastare questo mondo. Anche in questo la poesia si rivela la lingua più appuntita, affamata. Che sia per devozione o negazione, per assenza o presenza, il poeta avverte nella realtà il senso del sacro. Ancora di più, sente nella realtà le ombre di qualcosa che non è dato vedere, la coglie nella sua teatralità dove non tutti gli attori giocano a farsi vedere. Io rimango, come mi dichiaro da sempre, un aspirante credente. Non ho sacramenti, né chiese, la mia ricerca spirituale è tutta nella postura con cui vivo quello che incontro. È nella tensione, attenzione, verso tutto e tutti.

Scrive che «ti amo» è da film americano, «ti voglio bene» lo diciamo a nostro fratello: quanto conta anche in amore possedere le parole giuste?

«Anche qui si tratta di ricerca. Del non volersi accontenta­re. L’amore dovrebbe essere il luogo dove le parole sono le uniche possibili. A scuola ci insegnano che esistono sinonimi, un equivoco enorme. L’amore chiede esattament­e il contrario: chiede di essere pronunciat­o con il nome che gli è proprio. Torniamo alla poesia. Che sia una rosa o una capra, un braccio con cui scendere un milione di scale, ecco cosa significa cercare le parole giuste. La poesia e la preghiera sono le due lingue che più si avvicinano all’altezza dell’amore. Sino all’adorazione. Persino Socrate, nel Simposio di Platone, quando parla d’amore ricorre all’insegnamen­to di una donna, Diotima, la sua «maestra d’Amore» con la A maiuscola. Qual è stata la sua Diotima?

«Non posso che pensare a mia madre. Al suo amore elementare e reale, sapiente per quanto può esserlo una carezza. Amore come forma di comprensio­ne assoluta. Capacità sublime di perdono. Sono un uomo fortunato, lo dico spesso. Il mio più grande patrimonio è aver vissuto in un luogo dove l’amore era costanteme­nte mostrato estroverso, con gesti, parole, segni. Poco fa parlavo della sapienza che ha una carezza. Oggi sembra quasi un ossimoro. Ma i nostri corpi sono i veri veicoli dell’amore, è dal corpo che nascono le parole, dall’utilizzo di tutti i nostri sensi. Oggi viviamo da esiliati nella nostra mente».

Marte, Mercurio e Nettuno, i tre uomini protagonis­ti di Lux Hotel, nell’immaginari­o collettivo sono eroi di guerra, simbolo di coraggio e umanità, nella realtà uomini che non amano se non il proprio nome. Chi è un eroe e qual è il vero coraggio (che poi parte dal cuore)?

«Ho scritto Lux Hotel più o meno quattro anni fa, quando i conflitti, vecchi e nuovi, erano meno brucianti di quanto non lo siano ora. In Lux Hotel abbiamo la rappresent­azione del falso eroe, del falso vincitore, dell’uomo che si consuma nella deificazio­ne di sé stesso. Non è eroe chi è venerato da un popolo e considerat­o massacrato­re da un altro. Il vero eroe, come dice giustament­e lei, è chi mette il cuore in quello che fa. Torniamo alle parole e al loro uso. Il sostantivo coraggio ha assunto negli ultimi due secoli una connotazio­ne maschile, esaltata. Io credo nel coraggio della gentilezza, della cortesia, dell’ascolto. Mi vengono in mente i Vangeli. Ci vuole più coraggio ad abbracciar­e un lebbroso o a tirare una pietra ad un uomo?

Nella conclusion­e del libro scrive che in ogni gioco a questo mondo vince chi ha vinto ancora prima di giocare. E aggiunge «a meno che…». Come ci si gioca questo “a meno che”? Dedicato a tutti i giovani (e non solo) che la leggeranno.

«A meno che non si butti via la corazza di cose vuote che abbiamo addosso, con la voglia di esplorare, non importa cosa, dove e come, ma per il gusto della scoperta personale. A meno che non si spenda tutta la nostra vita a cercare la cosa per cui siamo nati: il nostro talento. E dare la vita per inseguirlo, alimentarl­o, accudirlo. Sono nato nel ’74, dunque, quest’anno compirò cinquant’anni. Se guardo al mio passato, agli ultimi trentacinq­ue anni di vita, mi riconosco questa enorme fortuna, l’ho detto che mi definisco spesso fortunato…, aver trovato la cosa che amo fare e che mi ama. Che mi tormenta e risarcisce con momenti di grazia sovrumana. La poesia».

«IL VERO EROE È CHI METTE IL CUORE IN QUELLO CHE FA. CI VUOLE PIÙ CORAGGIO AD ABBRACCIAR­E O A TIRARE UNA PIETRA?»

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DANIELE MENCARELLI DEGLI AMANTI, NON DEGLI EROI (MONDADORI)
LA COPERTINA DEL NUOVO LIBRO DI POESIE DI DANIELE MENCARELLI DEGLI AMANTI, NON DEGLI EROI (MONDADORI)

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