«BELLA L’IDEA QUEER MA SULLA FAMIGLIA MEGLIO WITTGENSTEIN»
Cos’è un’autobiogrammatica? Un libro autobiografico che racconta la vita dell’autore, e delle persone a lui care, attraverso le parole che hanno segnato le loro vite. Se l’idea vi piace, ecco le istruzioni per scrivere il vostro abbecedario illustrato, ricavate dalla lettura di Autobiogrammatica di Tommaso Giartosio (minimum fax) e dalla chiacchierata fatta in vista dell’uscita del libro.
1. Scrivi le parole che associ alle persone che fanno parte della tua famiglia.
2. Scrivi le parole che rappresentano la tua identità, che ti hanno ferito, con cui hai ferito, che ti hanno liberato, spaventato, deliziato, quelle dei sogni, quelle tabù.
3. Scrivi cosa significano per te le parole che hanno segnato o segnano l’epoca in cui hai vissuto e vivi.
4. Trasforma le parole in racconti, ogni parola è una parabola, le nostre vite si basano su miti fondativi.
5. Metti in discussione queste parole-parabole, guardate da un nuovo punto di vista, saranno accessibili anche a chi non parla la tua lingua. Cioè tutti gli altri.
È ciò che ha fatto Giartosio squadernando la sua infanzia, la giovinezza in un album di parole. Il modello dichiarato è il Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, uscito nel 1963, mentre l’idea di famiglia è quella del linguista Ludwig Wittgenstein. Foto e disegni che si intrufolano nel testo sono para-didascalie. Illustrano fingendo di spiegare, giocano da sole, come le parole. Non solo le parole d’ambito artistico, ma pure quelle militari. «Il Comandante in Capo» scrive Giartosio «con questo suo strano titolo me lo immaginavo arrampicato sulle sue stesse spalle». O la barzelletta infantile su Salvo Lima, trasformato in coppia di verbi di scrittura e di vita: “salvare” e “limare”. La vita delle parole può creare dei non-sense. La vita senza parole, a volte, pare non avere senso.
Qual è la parola che più la ferisce?
«Modesto. La modestia dovrebbe essere una virtù, ma è anche un difetto».
Lo scrittore e poeta compone il suo lessico quotidiano, con esiti imprevedibili. Come l’amore
Una parola che la blandisce?
«Poesia. Mi piace la dimensione fisica, corporale, dal greco poiéin, fare. Le parole del corpo sono sorprendenti, il corpo sepolto, il corpo che nasce, cresce, ama». Una parola più specifica che, almeno in parte, la definisce?
«Direi il mio animale totemico, il topo. Animale da biblioteca, furtivo, che non disturba, ma ruba. Io rubo parole».
A sua madre che parola associa?
«Gioia. Lei aveva una visione positiva, non era capace del tragico».
Suo padre faceva il militare, a lui è dedicato il libro di poesia Come sarei felice. Se fosse una parola, sarebbe?
«Onestà. E mi riferisco al fatto per esempio che mio padre rifiutò di entrare nei servizi segreti. Per limpidezza, nobiltà. Ma onestà è una parola doppia, per me un
limite, in famiglia non abbiamo ricevuto un’educazione alla menzogna. Ed è un male. Bisogna saperla riconoscere e all’occorrenza usarla, a volte è meglio mentire». Ad esempio?
«Con i bambini, non puoi dire tutto, devi proteggerli».
Che parole associa ai suoi figli?
«Sorpresa. Anche perché ci sono tutti questi termini nuovi che usano... Mi piace “friendzonare”, cioè limitare a un rapporto di amicizia una persona che vorrebbe essere qualcosa di più. Sarebbe bello se usassero “loverzonare”, cioè trasformare il rapporto amicale in qualcosa di più, ma se glielo dico mi danno del boomer».
A suo marito che parola associa?
«Difficile dirlo. Rubo le parole ai miei figli che lo chiamano Papacco, cioè papà Gianfranco, mentre io sono Patò, cioè papà Tommaso».
Nel libro racconta episodi di bullismo. All’epoca, scrive, questa parola «era un raro sinonimo di prepotenza o machismo riferito agli adulti dei ceti popolari soprattutto romani. Quando, negli Anni 90, l’ho sentita per la prima volta, la si usava nel senso che ha oggi: ma mi sono sentito offeso, sminuito. Come un dottor Jekyll che veda ridurre la sua storia a un caso di schizofrenia». Stiamo medicalizzando la società con le parole?
«Bullismo è una pinzetta, un guanto in lattice che non rende il bruciore dell’esperienza reale, serve a indicarla in modo oggettivo e a combatterla meglio. Un tempo, purtroppo, molti pensavano che servisse a farti crescere in fretta, che fosse un bene». Nel libro riflette, senza giustificare, sugli usi costruttivi degli insulti.
«Vero. Il rapporto con il linguaggio offensivo cambia storicamente e nell’individuo. Io per esempio a un certo punto ho iniziato a dare del “lei” agli immigrati, all’inizio davo del tu. Ma non era accettabile usare il “tu” basandomi sul colore della pelle o la pronuncia straniera dell’italiano. Oggi si è diffuso un maggiore rispetto nell’uso delle parole. Ma il linguaggio non sarà mai limpido. Inoltre l’insulto, ed è paradossale, (MINIMUMFAX) DI TOMMASO GIARTOSIO, VOCE DI RADIO 3 E AUTORE DI
LIBRI IN PROSA E VERSI. DA DOPPIO
RITRATTO A COME SAREI FELICE può essere costruttivo se chi lo riceve se ne impadronisce, se riesce a farlo proprio. L’hanno fatto molte minoranze rivendicative, scegliendo di chiamarsi gay, queer, tory, whig, impressionisti, crepuscolari...».
A lei è capitato?
«Sì, avev0 trent’anni, era la sera in cui sono uscito con quello che sarebbe poi diventato mio marito. Camminavano lungo le mura e siamo stati insultati violentemente, ci hanno urlato “froci!”. Un insulto che altre volte aveva sortito il suo scopo naturale, cioè ferire e chiuderti in una gabbia, ma in quel momento ha fatto nascere altro tra noi, una reazione, una rivendicazione, un legame intimo e insieme politico. Ne ho scritto in una poesia che sarà nella prossima raccolta. Poi frocio, rispetto ad altri ingiurie, suona bene, ha una sua scorrevolezza».
Il “genere” oggi ha un peso politico maggiore dell’orientamento sessuale? Penso alla categoria omosessuale.
«Oggi c’è “queer” a sparigliare i giochi, propone di superare qualsiasi forma di identità, non solo sessuale o di genere. Nel mio libro racconto anche come si incrina l’identità familiare, linguistica, etnica, addirittura di specie. Al tempo stesso penso che non vada accettata a scatola chiusa la soppressione dell’identità; è qualcosa che fa parte dell’esperienza umana. Un concetto che occorre complicare, imbastardire, superare, ma non cancellare».
Lei è stato portavoce di Famiglie arcobaleno. Cosa è per lei “famiglia”?
«Un gruppo che nel suo insieme condivide degli elementi che però non sono presenti in tutti i membri. Come nelle somiglianze di famiglia di Ludwig Wittgenstein. Un insieme dove ci sono gli elementi A, B, C, D, e dove c’è chi ha A e B, chi ha B e D, eccetera. Non tutti si è identici. Ci si completa, ci si contrappone, spesso ci si fraintende. Ma si è legati dalla cura e dall’amore».
Nel libro racconta la sua passione per Ezra Pound, per la sua visionarietà linguistica, ma poi ha dovuto fare i conti con il feticismo dei neo-fascisti.
«All’epoca vedevo in Pound una possibilità di libertà, il poter fuggire dalle gabbie famigliari di definizione. Poi mi sono reso conto che lui idealizzando l’ideogramma cinese ambiva ad una visione poetica e politica totale, che potesse dire qualsiasi cosa in modo immediato e trasparente. E quando questo accade, puoi pensare di mettere sullo stesso piano la democrazia di Jefferson e il regime di Mussolini, ma di fatto sviluppi una visione imperialista, totalizzante, totalitaria. Negli Anni 80 a un convegno scoprii che per molti il suo valore principale era essere stato fascista. Oggi preferisco i versi della sconfitta, i Canti pisani».
Gli emoticon di oggi non le ricordano un po’ degli ideogrammi... mimetici?
«Da un lato sostituiscono frasi inutili, come “cordiali saluti”, “sinceramente tuo”, dall’altro avvicinano lo scritto al parlato, dando il tono. Sono segni semplici, ma le culture umane tendono a complicare: usando gli emoticon si lavora meno sulle parole, il registro, e così quando non li usi ci si può fraintendere, si scambia per offesa una frase senza emoticon».
«È UN INSIEME IN CUI CI SONO GLI ELEMENTI “A”, “B”, “C”, “D”. C’È CHI HA “A” E “B”, E CHI HA “C” E “D”. NON SIAMO IDENTICI, CI COMPLETIAMO»