PHILIP SEYMOUR HOFFMAN
L‘ATTORE CHE PREFERIVA ESSERE IAGO, FU CAPOTE E FINÌ UCCISO DAI SUOI DEMONI
Lui era piuttosto alto, corpulento con voce corposa e accento attoriale newyorchese. L’altro era un tombolotto scattante con vocina inimitabile e accento misto, fra morbidezze del Sud e acuti nordici. L’impresa di interpretare al cinema Truman Capote terrorizzava Philip Seymour Hoffman, attore di talento e tormentato della scena americana fino allora chiuso in ruoli secondari, ma il regista Bennett Miller insistendo e insistendo ha avuto ragione e Philip ha colpito nel segno restituendo una perfetta e luminosa interpretazione del capriccioso scrittore. Voce, accento, gesti (il modo espressivo di tenere la sigaretta), tutto tanto incredibilmente aderente da cancellare i centimetri e i chili di differenza. Per lo scrittore John Le Carré il suo Capote era la miglior performance mai vista sullo schermo e la critica di cinema Lietta Tornabuoni scrisse su Lo Specchio che era «impressionante da sentire, quella voce agra da bambino petulante, per chi abbia avuto l’occasione di chiacchierare con Capote; e quella era soltanto parte di un’interpretazione camaleontica, una autentica personificazione da parte dell’attore».
Una personificazione che a Philip era costata parecchio. Non solo ore davanti alla tv a sentirlo e risentirlo, per quattro mesi e mezzo di preparazione. «Qualche volta essere un attore è come essere un detective che va a caccia del segreto che ti svela tutto il carattere che devi interpretare. Nel caso di Capote, così seduttivo, manipolatorio, insicuro, mi era richiesto di deragliare sempre un po’, e questo non era poi un granché per la mia salute mentale». In più, aveva spiegato Philip a Lynn Hirschberg del New York Times nel 2008, due anni dopo l’uscita del film, «dovevo sempre avere una postura che non era la mia e parlare con una voce che forzava di continuo le mie corde vocali, insomma dovevo rimanere nel personaggio tutto il giorno, altrimenti il mio corpo mi avrebbe abbandonato».
Titanica impresa che però ha tolto l’attore da quel limbo dorato di ruoli marginali al cinema consacrandolo nell’empireo dei grandi del secolo. E non solo per la tripletta di Bafta, Golden Globe e Oscar vinti quell’anno, appunto per Truman Capote. A sangue freddo. Rimasto folgorato a 12 anni dalla messa in scena a teatro di Erano tutti miei figli di Arthur Miller, il piccolo Philip si ammala di palcoscenico e per tutta la
vita pencolerà fra teatro e cinema, anche se per breve tempo è stato un atleta, tra baseball e wrestling. Per lui recitare era una gioia quasi naturale, ma il rovescio della medaglia veniva con la curiosità vorace e l’ansia di perfezione che lo divorava. «Per me recitare è una tortura, ed è una tortura perché sai che è una cosa bellissima. Volerlo fare è facile, ma cercare di essere il migliore… beh, quello è assolutamente una tortura».
Amore e odio per il suo talento e la sua arte, bisogno di recitare, ma anche bisogno di essere liberato dall’ossessione della parte, facevano di lui un attore vero e appassionato, ambizioso ma mai narcisista, un caso a sé di fuoriclasse non divorato dall’ego. Il suo amico regista Bennett Miller ha raccontato che qualche settimana prima dell’Oscar erano al festival di Berlino e Philip, dopo aver visto il film in sala, era uscito con le lacrime agli occhi dicendo: «Povero Bastardo!»: «Ecco, finalmente era uno del pubblico, non era più Capote, libero dall’ossessione». E con la stessa umana compassione Philip aveva scelto le parti secondarie che lo avevano portato fino a lì, calandosi ogni volta nel carattere con intatto e tormentato impegno, da Profumo di donna a Quasi famosi a Il grande Lebowsky. Spesso parti odiose o tormentate, creature divorate dal conflitto che lui, da marginali, riusciva a riportare al centro della scena, come in Onora il padre e la madre o Il dubbio, fino a The Master. «Tutti gli attori vogliono fare Amleto, io no, preferisco Iago, penso che i suoi demoni mi interessino di più».
Per questo suo sguardo tormentato e inquieto sul mondo, si è anche immolato a 46 anni: Le Carré, che lo aveva seguito sul set di La spia (tratto dal suo romanzo Yssa il buono), diceva che era l’attore che di più l’aveva impressionato, più di altri come Richard Burton o Burt Lancaster o Alec Guinness. I tormenti che aveva vissuto in scena erano diventati fantasmi che lo stavano consumando, poco più che 40enne Philip ricasca nelle dipendenze giovanili, e dopo un percorso doloroso di stop and go muore per overdose in mix micidiale di droghe e farmaci. Quattro anni dopo la sua morte la sua compagna e madre dei tre figli, la costumista Mimi O’Donnell, ha raccontato su Vanity Fair che, per alleviare il dolore e lo choc familiare, dopo qualche anno si era fatta convincere a prendere una cagnetta, Puddles. Appena è arrivata, il più grande, Cooper che ormai aveva 14 anni, ha detto: «Morirà. I cani non vivono a lungo, quindi la vedremo morire».
OSCAR WILDE