TROVARE UN SENSO NEL LAVORO PERCHÉ SIA SPAZIO DI LIBERTÀ UNA MISSIONE (IM)POSSIBILE?
Pensiamo, ragioniamo, parliamo. Usiamo la testa, insomma. Per questo Aristotele ci definiva gli animali razionali: perché ciò che ci distingue da tutti gli altri viventi è appunto il possesso della ragione. Facciamo anche altro, però. Agiamo, e di anche questo – di quello che facciamo nelle nostre giornate e nelle nostre vite – dobbiamo occuparci, con buona pace dei filosofi, che s’interessano solo ai ragionamenti. È un’idea difesa a più riprese da Hannah Arendt, che infatti rifiutava il titolo di filosofa. Più precisamente, Arendt proponeva di classificare le nostre attività in tre gruppi diversi: lavoro (labor), opera (work) e azione (action). Il primo è l’impegno che noi dedichiamo alle necessità di base: si lavora per vivere, per procacciarsi cibo. In una prospettiva storica un esempio di lavoro è insomma l’agricoltura. L’opera consiste in quelle attività con cui creiamo il mondo in cui viviamo. Il mondo della tecnica e della tecnologia, insomma, visto che praticamente tutto quello che ci circonda è il risultato delle nostre attività. Ma neppure questo è un tipo di attività pienamente libero: è uno strumento, piuttosto. Per fare cosa? Per Hannah Arendt ciò che davvero conta è quello che lei chiama «azione», «agire»: come ci muoviamo nel mondo, parlando e agendo, disvelando noi stessi. Questo è ciò che veramente conta, perché qui è lo spazio della libertà in cui finalmente facciamo i conti con noi stessi e cerchiamo di dare un senso alle nostre vite. Solo noi possiamo farlo.
Sono idee ricalcate sullo stile di vita degli antichi greci e romani. È l’ideale dell’otium – del tempo libero inteso seriamente. Non come un momento vuoto da riempire con qualche hobby, bensì come il momento in cui siamo finalmente liberi di realizzarci, di pensare a noi stessi e a quello che vorremmo diventare e essere. Noi diamo veramente prova di noi stessi soltanto quando siamo liberi di scegliere cosa fare di noi stessi. Non c’è cosa più importante, e più impegnativa, di saper usare il proprio tempo libero – la nostra libertà, insomma.
Sono spunti affascinanti, inutile negarlo. Ma anche problematici, se consideriamo la nostra società. Questo modello, in effetti, ricalcato come è su quello antico, si rivolge a persone che non hanno bisogno di lavorare, e che dunque hanno davvero la possibilità di costruire la propria esistenza in piena libertà. Noi, però, con la fortunata eccezione di qualche privilegiato, dobbiamo lavorare (o abbiamo lavorato). Il lavoro scandisce le nostre giornate, ne occupa spesso una parte preponderante. E non ha senso relegarlo in una posizione secondaria – il momento del bisogno, appunto – in attesa di un tempo liberato che arriva sempre troppo tardi o quando siamo ormai stanchi. Anche il lavoro, qui, oggi, non a Roma o ad Atene, deve contribuire a definire il senso delle nostre esistenze. Diversamente, che senso avrebbe dedicare la grande parte delle nostre giornate al lavoro? Per sopravvivere ma non per vivere? Questa è la sfida forse più impegnativa che la nostra società sta fronteggiando, non con grande successo, a quanto pare: trovare un senso, e un nuovo spazio per il lavoro mentre tutto sta cambiando e i valori che tenevano insieme la collettività vengono meno.
ARENDT, PENSANDO AGLI ANTICHI, INDIVIDUAVA NELL’«AZIONE» LA MASSIMA REALIZZAZIONE DI SÉ. MA ATENE E ROMA SONO LONTANE