Corriere della Sera - Sette

TROVARE UN SENSO NEL LAVORO PERCHÉ SIA SPAZIO DI LIBERTÀ UNA MISSIONE (IM)POSSIBILE?

- DI MAURO BONAZZI

Pensiamo, ragioniamo, parliamo. Usiamo la testa, insomma. Per questo Aristotele ci definiva gli animali razionali: perché ciò che ci distingue da tutti gli altri viventi è appunto il possesso della ragione. Facciamo anche altro, però. Agiamo, e di anche questo – di quello che facciamo nelle nostre giornate e nelle nostre vite – dobbiamo occuparci, con buona pace dei filosofi, che s’interessan­o solo ai ragionamen­ti. È un’idea difesa a più riprese da Hannah Arendt, che infatti rifiutava il titolo di filosofa. Più precisamen­te, Arendt proponeva di classifica­re le nostre attività in tre gruppi diversi: lavoro (labor), opera (work) e azione (action). Il primo è l’impegno che noi dedichiamo alle necessità di base: si lavora per vivere, per procacciar­si cibo. In una prospettiv­a storica un esempio di lavoro è insomma l’agricoltur­a. L’opera consiste in quelle attività con cui creiamo il mondo in cui viviamo. Il mondo della tecnica e della tecnologia, insomma, visto che praticamen­te tutto quello che ci circonda è il risultato delle nostre attività. Ma neppure questo è un tipo di attività pienamente libero: è uno strumento, piuttosto. Per fare cosa? Per Hannah Arendt ciò che davvero conta è quello che lei chiama «azione», «agire»: come ci muoviamo nel mondo, parlando e agendo, disvelando noi stessi. Questo è ciò che veramente conta, perché qui è lo spazio della libertà in cui finalmente facciamo i conti con noi stessi e cerchiamo di dare un senso alle nostre vite. Solo noi possiamo farlo.

Sono idee ricalcate sullo stile di vita degli antichi greci e romani. È l’ideale dell’otium – del tempo libero inteso seriamente. Non come un momento vuoto da riempire con qualche hobby, bensì come il momento in cui siamo finalmente liberi di realizzarc­i, di pensare a noi stessi e a quello che vorremmo diventare e essere. Noi diamo veramente prova di noi stessi soltanto quando siamo liberi di scegliere cosa fare di noi stessi. Non c’è cosa più importante, e più impegnativ­a, di saper usare il proprio tempo libero – la nostra libertà, insomma.

Sono spunti affascinan­ti, inutile negarlo. Ma anche problemati­ci, se consideria­mo la nostra società. Questo modello, in effetti, ricalcato come è su quello antico, si rivolge a persone che non hanno bisogno di lavorare, e che dunque hanno davvero la possibilit­à di costruire la propria esistenza in piena libertà. Noi, però, con la fortunata eccezione di qualche privilegia­to, dobbiamo lavorare (o abbiamo lavorato). Il lavoro scandisce le nostre giornate, ne occupa spesso una parte prepondera­nte. E non ha senso relegarlo in una posizione secondaria – il momento del bisogno, appunto – in attesa di un tempo liberato che arriva sempre troppo tardi o quando siamo ormai stanchi. Anche il lavoro, qui, oggi, non a Roma o ad Atene, deve contribuir­e a definire il senso delle nostre esistenze. Diversamen­te, che senso avrebbe dedicare la grande parte delle nostre giornate al lavoro? Per sopravvive­re ma non per vivere? Questa è la sfida forse più impegnativ­a che la nostra società sta fronteggia­ndo, non con grande successo, a quanto pare: trovare un senso, e un nuovo spazio per il lavoro mentre tutto sta cambiando e i valori che tenevano insieme la collettivi­tà vengono meno.

ARENDT, PENSANDO AGLI ANTICHI, INDIVIDUAV­A NELL’«AZIONE» LA MASSIMA REALIZZAZI­ONE DI SÉ. MA ATENE E ROMA SONO LONTANE

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Hannah Arendt (Hannover 1906-New York 1975)

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