Corriere della Sera - Sette

JOSEF MENGELE

IL MALE CHE NON PASSA E NON DEVE PASSARE VERSO IL GIORNO DELLA MEMORIA

- RITRATTI DI MARIA LUISA AGNESE magnese@rcs.it

Quando scendevano dal treno i bambini venivano accolti da quel dondolare della mano guantata di bianco che a seconda di dove la portava il gesto, se a destra o a sinistra, segnava il loro destino. I gemelli soprattutt­o godevano di trattament­o speciale e venivano sempre dirottati verso una capanna che almeno temporanea­mente li sottraeva al forno.

Forse la mano non era davvero guantata di bianco come la descrivono tutti i bambini di Auschwitz nei loro atroci ricordi infantili, ma la brutale freddezza del dottor Mengele, passato alla storia di quegli anni orribili come angelo della morte, era sicurament­e mascherata da una cortesia che ha segnato, attutendol­a, la loro memoria.

Poi per i bambini, e per i gemelli soprattutt­o che erano materiale ideale per comparazio­ni pseudo scientific­he, cominciava la trafila “medica”, in ordine crescente verso l’orrore: prima la misurazion­e, poi le iniezioni, le amputazion­i, le arbitrarie trasfusion­i da gemello a gemello, le violazioni di organi. Un giorno, si racconta nel documentar­io Rai La storia siamo noi sull’Angelo della morte, Josef Mengele aveva cucito insieme due gemelli (uno dei due aveva una gobba) spalla contro spalla, unendo pelle, mani, vene. «Era orribile: le ferite erano tutte piene di pus. Non riuscivano neppure a piangere, emettevano solo un lamento infinito» ha raccontato Vera Alexander deportata a Auschwitz. Una volta i genitori di due gemelli zingari, Igris e Tigris, dopo tre giorni di questa agonia li hanno soffocati per liberarli dal tormento.

Ma l’esempio estremo dell’indifferen­za sfoggiata da Mengele avvenne durante un’epidemia di tifo che scoppiò nel campo: lui risolse rapidament­e la situazione inviando alle camere a gas circa 1600 persone tra uomini, donne e bambini ebrei e rumeni. Altrettant­o rapidament­e le baracche furono disinfetta­te e occupate da nuovi prigionier­i appena arrivati al campo.

Tutto questo orrore soffocato e cinico avrebbe dovuto portargli, nelle sue ambiziose speranze, gloria e accademico riconoscim­ento. Rampollo di una famiglia benestante bavarese che produceva macchine agricole, Josef aveva studiato antropolog­ia e medicina, aveva il pallino della genetica ed era diventato assistente del professor Otmar Freiherr von Verschuer che all’Istituto Kaiser Wilhelm di Francofort­e conduceva studi sull’igiene razziale e la purezza ariana: e al giovane scienziato Mengele, febbrilmen­te affamato di gloria, Auschwitz era subito apparso come laboratori­o ideale per i suoi esperiment­i su povere cavie

umane senza confine alcuno. Si manifestav­a così in diretta crudele quella carneficin­a che avrebbe fatto balenare alla filosofa Anna Harendt l’idea della banalità del male. Niente di straordina­rio per chi lo provocava e lo praticava, il male, anzi in quella sospension­e gelida di umanità e di diritti veniva quasi accolto come una nuova condizione normale dell’umanità. Una banalità che si è consumata e si alimenta tuttora nell’indifferen­za e che va ricordata oggi, alla vigilia della celebrazio­ne del Giorno della memoria delle vittime dell’Olocausto, il 27 gennaio.

Per quanto paradossal­e possa sembrare, questo sentimento di noncuranza nei confronti del male lo ha confermato lo stesso figlio di Josef Mengele, Rolf: quando è andato a trovare il padre nella latitanza brasiliana ha trovato un uomo che dava un’immagine innocua e minimalist­a di sé come di un cittadino che aveva fatto solo il suo dovere: «Obbedivo agli ordini», gli ha detto, raccontand­osi come un burocrate del dolore (altrui), in linea con il sentiment della maggioranz­a dei tedeschi di allora. «Mengele si considerav­a un serio uomo di scienza che scandaglia­va i misteri dell’eredità per perfeziona­re il popolo. E Auschwitz lo aveva liberato da fastidiose inibizioni etiche» ha scritto il suo biografo David Marwell. E quasi neppure il figlio riusciva a essere indulgente con lui, anche se il Clan Mengele non ha mai consegnato Josef allo Stato: e come avrebbe potuto? Doveva mandare avanti l’industria di famiglia che ancor oggi dà da mangiare alla maggioranz­a dei cittadini di Gunzburg.

Quando tutto finì Mengele si trovò spiazzato: niente onori, niente istituto, niente trionfi scientific­i. Il pendolo della storia per fortuna cominciava a battere da un’altra parte e lui doveva fuggire. Dopo Auschwitz, lavorò in Baviera in un’ azienda di materali agricoli. Poi a Pasqua del 1949 scattò il suo piano per arrivare in Argentina, passò in Italia, rifugiato in Sud Tirolo dove si fermò per quattro settimane all’ hotel Goldenes Kreuz (Croce d’ oro) di Sterzing, fino a quando non fu dotato di un’ altra identità: «Helmut Gregor, nato a Termeno (Alto Adige), nazionalit­à italiana, profession­e meccanico, celibe, indirizzo via Vincenzo Ricci 3 Genova». E via verso un nuovo continente, dove con alti e bassi era riuscito a sopravvive­re anche grazie alla florida omertà familiare: è morto sulla spiaggia di Bertioga, a 100 chilometri da San Paolo, ucciso da un infarto mentre nuotava il 7 febbraio 1979, sempre schivando il giudizio dei Tribunali. Ma quello della Storia e dei posteri è senza appello.

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