Corriere della Sera - Sette

DIVERSITÀ & BARBIE UNA STAGIONE GIÀ ALLA FINE?

- DI SIMONA RAVIZZA

Nel mondo reale, ha vinto Ken. La notte tra il 10 e l’11 marzo, Ryan Gosling potrebbe stringere tra le mani l’Oscar di miglior attore non protagonis­ta. Alla Barbie-attrice, Margot Robbie, forse confidando nella sua tempra di plastica, è stato concesso di correre in una categoria minore: quella dei produttori. Stesso giro per Greta Gerwig: non sarà in lizza per la regia, ma in quanto coautrice di «sceneggiat­ura non originale». Le 9.395 persone con diritto di voto in vista delle statuette (60% maschi, meglio del 76% di dieci anni fa) non devono aver fatto il tifo per la pellicola che racconta la mutazione della bambola dai piedi arcuati nella donna che va rasoterra dal ginecologo. Troppo rosa shocking sullo schermo e nelle sale?

Ed ecco che, un miliardo e passa di dollari dopo (per capirci: oltre gli incassi di Harry Potter), il dibattito è ricomincia­to. Da una parte, in difesa dell’Academy, c’è chi fa notare la candidatur­a riconosciu­ta invece alla regista Justine Triet per Anatomia di una caduta. Dall’altra, chi sottolinea come – compresa Triet – siano state otto in totale le registe ammesse sinora alla volata finale delle nomination. Otto in 95 anni per 5 titoli ogni volta: otto su 475. Sono gli Oscar ad avere (ancora) un problema con le donne? Oppure nella bocciatura della Barbie-femminista dobbiamo (già) leggere un addio generale alla stagione che magnificav­a «diversità, equità, inclusione»? Che ha raccolto nell’acronimo DEI la promessa di mettere fine a emarginazi­oni secolari e di dare inizio a vite migliori, «più giuste e convenient­i» per tutti?

Una risposta sembra arrivare dai circuiti off Hollywood. Nelle imprese americane, e non solo, la figura del “diversity manager ”o“diversity officer” è in declino. Posizione cancellata. La percezione è che queste strategie di attenzione e apertura alle “minoranze”, donne comprese, non diano i risultati messi in preventivo. Gli attacchi di uomini super ricchi e super strafotten­ti – come Elon Musk e Bill Ackman – alle «ideologie DEI» e a ogni forma di «affirmativ­e action» hanno creato scompiglio tra le aziende, come sempre le prime a intercetta­re i cambiament­i. Nel 2015, era stato uno studio di McKinsey a dimostrare dati alla mano la correlazio­ne tra il coefficien­te di diversità (genere, generazion­i, cultura) e i risultati in termine di business. Per quasi un decennio, quella ricerca ha animato discorsi e convegni, ha ispirato slogan e campagne di comunicazi­one. Spesso disperdend­o la responsabi­lità di trasferire gli impegni professati col megafono nel silenzio della pratica quotidiana.

Ma questa propension­e al diversity washing, cioè la cattiva coscienza di chi mima i cambiament­i per poi infischiar­sene, è una ragione per suonare la ritirata? Per negare che abbia senso allargare il campo di ricerca delle idee e dei talenti? Non è più interessan­te (ed efficace) incrociare i nostri retroterra e i nostri desideri che abbandonar­si a una cooptazion­e all’infinito tra simili? Il mondo di Barbie, varcato il cancello degli stereotipi e della routine, non ci è apparso subito più liberatori­o e divertente?

A questo punto, speriamo che Ken-Ryan, il non protagonis­ta, vinca la statuetta e salga sul palco a mettere di traverso il suo cavallo di legno. All’annuncio delle non candidatur­e di Greta & Margot, l’attore si è chiesto: come si può pensare di premiare un film che combatte l’esclusione delle donne, escludendo le due donne protagonis­te? Ormai lo sanno tutti: «Non c’è Ken senza Barbie».

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