ETON E I CLUB, IDENTITÀ E APERTURA CHI FA PARTE DELL’ESTABLISHMENT?
Come facevano gli antichi romani a scegliere i loro leader? Se ne occupavano forse il Senato e il popolo, come verrebbe da pensare magari in base all’onnipresente sigla SPQR? No, Tacito non ha dubbi, almeno per quanto riguarda il periodo coperto dai suoi Annali (dagli ultimi anni del principato di Augusto fino alla morte di Nerone). La successione era un gioco controllato, dietro le quinte, dalle donne della famiglia imperiale (vedi le manovre di Livia per far arrivare al trono suo figlio Tiberio, idem Agrippina minore per suo figlio Nerone).
Gli inglesi di buoni studi e buone (e peraltro obbligatorie) letture, nelle loro scuole più esclusive (come Eton e Harrow) università-feticcio (Oxford e Cambridge) studiano con attenzione Tacito da secoli: per questo, hanno non soltanto creato uno strumento nuovo per la gestione del potere che andasse oltre la mera presenza di un sovrano ma hanno a questo strumento anche dato un nome: establishment.
UN FILOSOFO-ALCHIMISTA
Re e regine passano, con i loro limiti e le loro grandezze e le loro difficilmente quantificabili ubbie, mentre l’establishment gloriosamente rimane, perpetuando il suo potere non così invisibile. Era l’infrastruttura necessaria a far funzionare l’impero – la definizione stessa di “impero britannico” nasce grazie al filosofo-alchimista John Dee ai tempi di Elisabetta I, secolo XVI – e come tale ha continuato a esistere, evolvendosi anche in era post-imperiale, quando con la fine della Seconda guerra mondiale l’impero sul quale non tramontava mai il sole conobbe l’inevi
SCUOLE ESCLUSIVE E UNIVERSITÀ-FETICCIO: LA SOCIETÀ BRITANNICA È DOMINATA DA REGOLE FERREE MA ANCHE (DA SEMPRE) NON PRECLUSA AGLI “ALTRI”. A CONDIZIONE CHE...
tabile crepuscolo (la fine degli imperi è un’altra cosa che i lettori dei classici conoscono bene).
Non aveva un nome ufficiale: William Cobbett, politico e velenoso pamphlétaire nel Settecento lo definì sinistramente «the Thing », la cosa, finché un commentatore dello Spectator, Henry Fairlie, sul numero del 23 settembre 1955, battezzò ufficialmente la parola establishment: «Con establishment non intendo soltanto i centri del potere ufficiale – anche se ne fanno certamente parte – ma piuttosto l’intera matrice delle relazioni ufficiali, e sociali, all’interno della quale il potere viene esercitato. L'esercizio del potere in Gran Bretagna (più specificatamente in Inghilterra) non può essere compreso se non si riconosce che è esercitato socialmente. Chiunque sia stato vicino all’esercizio del potere saprà cosa intendo quando affermo che l’establishment può essere visto all’opera non soltanto nelle attività del primo ministro, dell’arcivescovo di Canterbury e del Conte Maresciallo ma di comuni mortali come il presidente dell'Arts Council, il direttore generale della Bbc e perfino l'editore del Times Literary Supplement, per non parlare di divinità come Lady Violet Bonham Carter».
Lady Violet – nonna della bravissima attrice Helena, che dell’establishment culturale fa saldamente parte pur fingendo di nulla e girando tuttora per le quiete viuzze di Hampstead in stivaloni anfibi, fuseax neri, occhiali neri, giubba neri e capelli in ordine sparso – era una delle donne più potenti del Regno a quell’epoca, amicissima di Churchill e influente nemica dell’appeasement Anni 30 che ammiccava alla Germania hitleriana. Lady Violet che ovviamente si affrettò a scrivere al giornale sostenendo che l’establishment non esistesse, «è un corpo fittizio» (fa sorridere che quattro anni prima la nobildonna si era candidata per i liberali in un collegio nel quale l’amico Winston aveva scelto di non presentare nessuno per i conservatori, lasciandole via libera: perse comunque contro il laburista).
Più pragmatico fu lo storico Hugh Trevor-Roper (non ancora elevato alla cattedra reale di Storia moderna a Oxford grazie all’influenza dell’amico Harold Macmillan) che si limitò a puntualizzare che ogni Paese necessita di quella che definì «classe dirigente».
E la questione, al netto di polemiche, punti di vista, opinioni politiche, è proprio quella: giusto o sbagliato che sia, da alcuni secoli gli inglesi hanno deciso che la classe dirigente si seleziona in alcuni luoghi ben precisi tra persone che per il resto della vita tenderanno non soltanto a frequentarsi ma a aiutarsi gli uni con gli altri. Più del 50% dei primi ministri (30 su 57) hanno studiato all'università di Oxford (13 su 30 al college di Christ Church) e 14 all'università di Cambridge (quasi metà dei quali, 6 su 14, al Trinity College). Il probabile successore di Rishi Sunak (Oxford e Stanford) a Downing Street è il grande favorito laburista Sir Keir Starmer (Reigate e Oxford).
Fanno parte dell’establishment ovviamente la famiglia reale, l'aristocrazia, la nobiltà terriera, Cambridge e Oxford e Eton e Harrow, gli accademici e il clero della Chiesa d'Inghilterra, gli in
TRENTA PREMIER SU 50 HANNO STUDIATO A OXFORD, COME IL PREMIER SUNAK E IL PROBABILE SUCCESSORE STARMER. LA STORIA DI LADY VIOLET BONHAM CARTER, NONNA DELL’ATTRICE
dustriali più radicati nei centri di potere, le forze armate.
È un sistema con limiti evidenti? Sì. È un sistema chiuso? No, come dimostra Sunak, indù di famiglia indiana e – cosa ben più grave agli occhi del suo predecessore Churchill – astemio. E come dimostra il sindaco di Londra Sadiq Khan, famiglia d’origine pachistana, musulmano, che non è andato né a Oxford né a Cambridge. Nei media poi, è una questione inesistente: al primo direttore nero di Vogue Uk, Edward Enninful d’origini ghaneane, è subentrata Chioma Nnadi di padre nigeriano.
È un sistema monarchico? Sì. È un sistema razzista? Qui la risposta è più sfumata. I tempi sono cambiati, parte dell’establishment del primo Ottocento visse con estrema difficoltà, facendo enormi resistenze, la proibizione del traffico di schiavi in tutto l’Impero (1807), una pagina non edificante per quelli che eufemisticamente vennero definiti «interessi delle Indie occidentali» (in materia c’è un saggio fondamentale, The Interest: How the British Establishment Resisted the Abolition of Slavery dello storico Michael Taylor (laurea a Cambridge e cattedra a Oxford, peraltro). Oggi il Regno è saldamente multirazziale, e nella sua stanza dei bottoni abbondano donne e persone di colore che hanno archiviato per sempre il monopolio degli uomini bianchi. Ma è un dato di fatto che una figura come quella del recentemente scomparso Mohamed Al-Fayed (1929-2023), piazzista di macchine da cucire egiziano che riuscì a diventare miliardario, alimenta i dubbi: Al-Fayed, ben prima della guerra totale ai Windsor da lui dichiarata dopo la morte del figlio Dodi e di Lady Diana nell’incidente parigino del 1997, non fece mai mistero di aspirare a un posto sul ponte di comando del suo Paese d’adozione, posto che gli sfuggì sempre e che i suoi soldi non riuscirono a conquistare (fu un uomo influente, che è una cosa diversa).
E non è neppure questione di pelle: nessuno è più bianco degli oligarchi russi che, dagli Anni 90 fino all’invasione dell’Ucraina, trasformarono la Londra di Chelsea e della pragmaticissima
City in un sobborgo di Mosca, ma nessuno può sostenere che – come gli arabi forti dei loro petroldollari, da decenni – abbiano davvero fatto il loro ingresso nel mondo rarefatto della “Thing”.
Sostenere che Brexit abbia spaccato l’establishment è improprio: non è mai stato, dallo Slave Trade Act del 1807, come ricordato, un corpo unico, un monolite. Come non fu un monolite, l’establishment, quando l’ipotesi d’un qualche tipo di accordo con Hitler (destinato poi a finire come sappiamo) seduceva una discreta parte della classe dirigente, compreso quel Duca di Windsor che subito dopo aver abdicato il trono nel 1936 per sposare Wallis Simpson fece una visita in Germania con tè a casa Hitler, cena con Joseph Goebbels, Hermann Göring, Joachim von Ribbentrop e Albert Speer, e tour delle fabbriche belliche che stavano armando la Germania a ritmi vertiginosi, tra saluti nazisti e orchestrine che suonavano “God save the King”.
I PARVENU
Non è minimamente in dubbio la vocazione pro-libero mercato dell’establishment, che dell’Impero fu la spina dorsale: ma è meno ancora in dubbio che nelle trincee di questo mondo sfuggente Brexit sia stata vissuta – almeno in questo la sintonia col resto della società è evidente – soprattutto come fatto identitario.
È l’establishment delle scuole giuste, dei club giusti, aperto non soltanto per censo e non necessariamente per appartenenza a casati nobiliari, ma che sa dischiudere le sue porte a chi ne può garantire, sostanzialmente, la sopravvivenza. In modo identitario. E più che nelle pagine dell’Economist – apertissime ai parvenu – mostra sé stesso in quelle della rivista Tatler, tra match di polo e corse di cavalli a Ascot (la caccia alla volpe è tristemente per loro illegale da un ventennio), e foto di party esclusivi senza celebrities dello spettacolo né tantomeno TikToker (a meno che non siano nobili) con nomi che risultano sconosciuti ai sudditi di Sua Maestà in quest’era carolingia neonata, così diversa e così simile a quelle precedenti – almeno per loro.
LA CLASSE DIRIGENTE NON SI LASCIA SPACCARE NÉ DALLA SIMPATIA DI ALCUNI VERSO IL NAZISMO (VEDI DUCA DI WINDSOR) NÉ DALLA BREXIT. IL CASO EMBLEMATICO DI MOHAMED AL-FAYED