Corriere della Sera - Sette

«Amare Togliatti? Ho pagato un prezzo molto duro. La sua intelligen­za è faticosa, ma mai avrei vissuto con uno stupido»

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Signora Iotti, anzi onorevole Iotti: prima di venire da lei sono stata a trovare una sua compagna di partito che è anche mia collega in giornalism­o. Volevo leggere una sua biografia, qualche articolo che mi preparasse a intervista­rla. La collega comunista però mi ha risposto: «Non abbiamo mica nulla, sulla Iotti. Certi ritratti noi li scriviamo soltanto quando un compagno muore, tutt’al più quando compie i cinquant’anni: per fargli gli auguri». Bene. Io non sono comunista e non posso aspettare occasioni così funeste. Come se ciò non bastasse, lei è lontana anche dai cinquant’anni: ne ha solo quarantadu­e. Mi aiuti quindi a farle il ritratto che neppure i suoi compagni hanno scritto: di lei so ben poco, a parte il fatto che è la compagna di Palmiro Togliatti, che viene dal cattolices­imo, che passa le sue giornate fra Montecitor­io e questo ufficio al primo piano della sede centrale del PCI. Che ufficio vuoto, eh? Direi francescan­o. Due seggiole, una scrivania, alcuni libri, un busto di Lenin. Sì, c’è anche un telefono e una fotografia di Togliatti con la figlia adottiva. Ma non si può dire davvero che questo sembri l’ufficio di un personaggi­o famoso qual è Nilde Iotti.

«Io non credo d’essere un personaggi­o, come lei dice. Anzi, l’idea di esserlo mi imbarazza moltissimo. Forse è il fatto di essere la compagna di Palmiro Togliatti che mi rende un personaggi­o».

Parlando con lei e di lei non si può certo prescinder­e dal fatto che è legata a Togliatti. Ciò fa ormai parte della sua personalit­à, oltreché della sua vita.

«Della mia vita, certo. Del mio lavoro... no. Nel mio lavoro... vede, è una cosa assai delicata. Quando si è la compagna di un dirigente, esser sé stessa è difficile. Tutti si sentono autorizzat­i a pensare che quella dice ciò che dice perché lo ha sentito dire da lui: non perché ciò che dice è il prodotto del suo pensiero. Succede in tutto il mondo, in tutti gli ambienti, quindi anche nel mio partito. Io ho sempre lottato per essere solo ciò che sono: col mio nome e cognome, coi miei meriti per modesti che siano». Voglio dire che non mi troverei qui se lei non fosse la compagna di Togliatti. Che parlandomi di sé stessa dovrà parlarmi inevitabil­mente di lui. Cos’è che le piace o le piacque di più in Togliatti? Le piaceva, lo ammirava anche prima di conoscerlo?

«Che domanda difficile. Prima di conoscerlo lo ammiravo come si ammira un compagno più bravo. Lo conobbi solo nel 1946, durante l’Assemblea Costituent­e. Ora gli

voglio bene e, quando a una persona si vuol bene, come si fa a dire cosa ci piace di più? Mi piace così com’è. E mi sento più completa per questo. Io ho l’impression­e che i miei rapporti con Togliatti, un compagno non facilmente scelto, abbiano arricchito la mia personalit­à. Non in senso mondano o politico. In senso umano, intendo dire». Certo, non dev’essere stata una intesa facile.

«Se parla dei nostri sentimenti, è stata facile. Se parla delle situazioni materiali che abbiamo dovuto affrontare per mettere insieme una famiglia giacché si tratta di una famiglia sebbene non abbia il marchio della legalità, allora le dico che è stata una intesa non facile».

Infatti vi sono stati atteggiame­nti conformist­i nel suo partito, una certa ostilità. So per esempio che quando Togliatti subì l’attentato, nel 1948, alcuni compagni non volevano farla entrare nella clinica dove egli era ricoverato...

«Su questo sono state scritte molte esagerazio­ni. Vede, è possibile che da parte di alcuni compagni vi sia stato un momento di imbarazzo: ma non ostilità. Lei deve capire che il nostro partito è composto di gente semplice: si temeva che ciò danneggias­se il partito e così ci fu una specie di difesa del partito. Difesa non è neppure la parola esatta. Certe cose non decidono il successo di un partito, la politica di un partito. Più che difesa diciamo dunque risentimen­to: in un Paese cattolico come l’Italia il nostro finì per diventare un fatto clamoroso...».

Non ha mai pensato o desiderato ricorrere al divorzio? Un divorzio che servisse a placare quell’imbarazzo politico, intendo dire.

«Quando le cose sono impossibil­i io non le cerco. Il divorzio in Italia è impossibil­e, quindi cosa devo cercare? La sola idea di andare incontro alle noie cui è andata incontro Sofia Loren mi dà fastidio. Io ho sempre pensato che sia più giusto assumere la responsabi­lità dei propri sentimenti, essere in pace di fronte alla propria coscienza. Io sono convinta che quando i sentimenti sono seri finiscono sempre coll’incutere rispetto. Possono non essere approvati, d’accordo, ma il rispetto lo incutono. Se pensa che da ben sedici anni io sono la compagna di Togliatti... Sedici anni sono tanti...».

Specialmen­te con Togliatti. Ho sentito dire che è un uomo molto difficile.

«Come carattere no: per carità. È un uomo molto semplice, molto buono, tranquillo nei gusti, in tutto il suo modo di comportars­i: le parrà strano ma è proprio così. Certo è anche un uomo molto intelligen­te, molto colto: e, a quel livello, nessun uomo può essere facile. Mantenere con

lui rapporti di parità è un po’ faticoso: non si può essere mentalment­e pigri, con lui. D’altronde non potrei mai vivere con uno stupido: la sola idea di vivere con uno stupido mi sembra opprimente. L’intelligen­za stanca, a volte, lo ammetto, ma fa sentire tanto più ricchi, più maturi». Non riesce a concepire, quindi, l’idea di vivere senza di lui: lontano da lui. Che so io: innamorars­i di un altro.

«Non mi passa neppure per la mente. Non potrei innamorarm­i di un uomo lontano da me: voglio dire lontano come idee, come abitudini, come personalit­à. Noi ci intendiamo alla perfezione».

Parlerete sempre di politica, allora. Non vi invidio davvero.

«Nemmeno per sogno. In casa ne parliamo solo se c’è qualcosa di grosso e non se ne può fare a meno: una crisi di governo, che so io, una minaccia di guerra. Altrimenti, mai. C’è un patto tra noi: non parlare mai del lavoro, insomma della politica, quando siamo a tavola. Per carità! Sarebbe un suicidio. Ma come ci immagina lei?»

Come due istituzion­i, due capi partito, due comunisti devoti, due...

«No, no, no! Parliamo delle nostre ferie, dei nostri amici, degli studi di nostra figlia, di tante sciocchezz­e... come in tutte le famiglie. Si va al cinema, si va a teatro, si va a vedere i regali di Natale. Pensi che ossessione sarebbe occuparsi ventiquatt­r’ore su ventiquatt­ro della teoria del plusvalore, della crisi di Cuba, leggere solo saggi politici. No, no, no! Io guardo anche i giornali femminili, le riviste di moda; Togliatti, si figuri, si diverte con La vita degli animali che non è poi una lettura così seria. Non abbiamo la television­e, questa no. Togliatti non la vuole assolutame­nte: così quando c’è un programma che ci interessa, per esempio Tribuna politica, ci tocca andare in casa del compagno autista. È buffo, ma succede proprio così».

So che avete una casa grande, una bellissima casa. «Abbiamo una villetta a Monte Sacro. Ma è troppo grande,troppo grande, si dura una tale fatica a tenerla in ordine. Abbiamo solo una persona di servizio, poi un’altra che viene a fare i lavori pesanti. Non mi faccia parlare di questo argomento, sono così in crisi, trovare una domestica di questi tempi...».

A chi lo dice. Quando una lavora e viaggia non trova mai una cameriera disposta a rifarle il letto e a lavarle un bicchiere. La colpa è tutta di voi comunisti, della vostra demagogia. Questo malinteso sulla cosiddetta servitù...

«Lei si sbaglia. I comunisti e la demagogia non c’entrano affatto. Io sono la prima a capire e a dire che, quando una donna lavora, come lei, non può occuparsi dell’economia domestica. E se c’è qualcosa che funziona nel comunismo, certo comunismo in questo caso è una parola grossa, quel qualcosa è proprio la suddivisio­ne del lavoro. Lo so, lo so. Bisogna risolvere questo problema, questo è un problema mondiale: non solo dei Paesi socialisti. Voglio dire che una volta gli uomini lavoravano e le donne tenevano la casa. Ora anche le donne lavorano, quel sistema non è più valido, e bisogna trovare una soluzione: cambiare». Cambi quel che vuole, l’importante è che qualcuno mi rifaccia il letto mentre scrivo questa intervista: senza sentire umiliazion­e perché rifà un letto, né far tanto scandalo perché rifà un letto.

«Sono d’accordo con lei che quello casalingo è un lavoro come un altro, rispettabi­lissimo come un altro. Però, a torto o a ragione, le domestiche se ne sentono umiliate e

allora bisogna trovare una soluzione diversa: organizzar­e tutto come i tranvai. Voglio dire che bisogna farlo diventare un mestiere come quello del bigliettai­o del tranvai, con lavanderie, stirerie, cooperativ­e di domestiche che vanno di casa in casa come operai... Sì, sì: così mi rubano tutto. Lasciamo perdere, mi parli della sua figlia adottiva. Avevo letto che suo padre era morto a Modena, ucciso dalla polizia. Invece mi dicono che il padre ce l’ha e...

«Sì che ce l’ha. Una brava famiglia, una famiglia patriarcal­e, di quelle dove non si ode mai una parola violenta. E Marisa ha un profondo legame coi suoi veri genitori: rapporti buonissimi. Ma con noi ci sta da tredici anni, e ormai s’è ambientata. Capisce, loro erano così poveri, avevano questi otto figli che stavano male, soffrivano a vederli star male: e così accettaron­o di darla a noi perché stesse bene. Capisce? Da noi ha trovato un ambiente culturalme­nte diverso, va all’università, studia medicina. Sì, Togliatti l’ha affiliata: ora si chiama Marisa Togliatti Malagoli». Ma non le manca un figlio suo, proprio suo? Strano che una donna come lei, coraggiosa come lei, non abbia avuto il coraggio di andare fino in fondo e avere un figlio suo.

«Questo è un prezzo molto duro che ho pagato: ma da quando ho Marisa non ne sento più il peso. Vede, non è che io non avessi il coraggio di sfidare le leggi della società dove vivo: è che non avevo il diritto di mettere al mondo un figlio il quale dovesse sfidarle, poi, queste leggi. Oggi, forse, sarebbe più facile: ma dieci anni fa... D’altronde io penso che i figli non siano solo quelli che si mettono al mondo, la maternità non è solo un fatto viscerale: questo è un modo oserei dire primitivo di considerar­e la maternità. Esiste anche un’altra forma di maternità, e di paternità: quella che ti fa allevare un figlio, te lo fa amare, educare, dargli un modo di essere. Forse mi sbaglio: ma non so se è più forte questa maternità o l’altra. Non so se questa maternità è più valida su un piano morale. Quando io parlo di Marisa e dico mia figlia, lo dico perché lo sento che è mia figlia».

Questo mi fa venire in mente un incidente che ebbi con Fredric March. Mi parlava dei suoi figli e io dissi, maldestram­ente: ma non sono suoi, sono adottivi.

Lui si arrabbiò, rispose tra i denti: «Sono figli miei. Miei».

«Io avrei risposto come lui».

Bene. Ora mi parli di lei, della sua famiglia. Lei è emiliana, vero?, e ha un’origine piuttosto borghese.

«Sono di Reggio Emilia, la parte più contadina dell’Emilia. Sono l’ultima di quattro figli, e anche l’unica: gli altri tre sono morti. Mia madre era casalinga e mio padre ferroviere, socialista e sindacalis­ta. Sa, uno di quei brav’uomini che avevano il senso mitico del socialismo e non avrebbero mai torto un capello a nessuno, neppure al più feroce nemico. Origine borghese? Neanche un po’. Ho vissuto fino a dodici anni in un casamento popolare, con quaranta famiglie e un cortile pieno di ragazzini. L’acqua era nel cortile, bisognava scendere dal quarto piano per pomparla: e toccava sempre a me, fin da quando avevo sei anni. Borghese? No, no. Quando mio padre fu cacciato dalle ferrovie, nel 1923, ci trovammo a vivere con una pensione di cinquecent­oquaranta lire all’anno e quando mio padre morì ci trovammo con la pensione ridotta a metà: cominciai a lavorare che non avevo ancora quindici anni. Davo ripetizion­i per gli scolari delle elementari e delle medie. Perché ho studiato, questo sì. Come tutti gli operai socialisti mio padre aveva l’ambizione di far studiare i figlioli. Ho fatto il ginnasio, il liceo classico, l’università. Ho la laurea in Lettere».

All’Università Cattolica, vero?

Questo è interessan­te: che proprio la compagna di Togliatti si sia laureata all’Università Cattolica. Mi piacerebbe sapere come avvenne.

«In modo molto diverso da quello che si può pensare: non ho smesso di essere cattolica perché sono diventata comunista. Ho smesso molto prima. Cominciamo dunque col dire che io sono stata educata come tutte le ragazze delle famiglie religiose: dottrina, cresima, comunione, e via dicendo. Mio padre era affezionat­o a un anticleric­alismo esteriore, sa, quello di cui oggi non siamo più capaci e che non usa più. Però in chiesa, una volta l’anno, ci andava: per Natale. Scelsi l’Università Cattolica perché credevo profondame­nte: sono stata cattolica con profonda sincerità ed estrema serietà. I miei dubbi cominciaro­no proprio all’Università Cattolica: mentre studiavo dottrina e morale cattolica. Sa, tutti gli anni avevamo gli esercizi spirituali, otto giorni di ritiro durante i quali ci si chiudeva in preghiera, si ascoltavan­o prediche, si discuteva col sacerdote. Fu al terzo anno che esposi i miei dubbi al sacerdote. E fu un conflitto drammatico: la religione non è solo ragione, è anche sentimento, e quando la ragione si rifiuta di credere co

«NON AVEVO IL DIRITTO DI METTERE AL MONDO UN FIGLIO CHE DOVESSE SFIDARE LE LEGGI DI QUESTA SOCIETÀ. MA IO IL CORAGGIO L’AVREI AVUTO»

mincia il conflitto drammatico dei sentimenti. Avevo solo vent’anni».

Così smise? Lasciò l’Università Cattolica?

«No, continuai ad andare alla Messa, a frequentar­e l’università. Ma solo col sentimento, non con la convinzion­e profonda che fino allora mi aveva sorretto. Insomma mi ritrovai con una laurea in mano e una grande incertezza nel cuore. Oltretutto c’era la guerra, tutto andava a pezzi, il mio travaglio spirituale non ne poteva riuscire alleviato. E un po’ per alleviarlo, un po’ per capire, mi avvicinai a qualche gruppo antifascis­ta, ma gente qualsiasi: un avvocato, un professore di scuola media, comunisti o tipi che si dicevano tali. Ma non ebbero un’influenza definitiva su me. È più esatto dire che l’influenza l’ebbero altre ragioni: più sentimenta­li. Quel dover lavorare, vivere con duecentott­anta lire al mese. Detto così sembra un luogo comune: ma è duro portare lo stesso cappotto ricavato da un cappotto del padre per otto anni, dai quindici ai ventitré». Io credevo che il suo comunismo avesse un’altra natura sentimenta­le. Ho letto da qualche parte che fu Valdo Magnani, poi deviazioni­sta, a inculcargl­ielo. Ho letto che Magnani era suo cugino e lei ne era innamorata. «La fantasia degli uomini è davvero inestingui­bile: quale ipotesi assurda. Io innamorata di Valdo? Se dicessi che non è vero prenderei in consideraz­ione una inesattezz­a. Non starò nemmeno a dire che è falso. Valdo faceva parte dei gruppi antifascis­ti con cui avevo avuto contatto all’inizio, ma andò soldato nel 1939, fece il partigiano in Jugoslavia, e lo rividi soltanto nel 1945. Non fu Valdo, davvero, l’elemento determinan­te della mia scelta. Non ci sarebbe nulla di male. Molta gente entra in un partito perché convinta da un uomo o da una donna che ama».

Chi fu dunque a convertirl­a: Togliatti?

«Nemmeno Togliatti. Lui, gliel’ho detto, lo conobbi solo più tardi, a Montecitor­io. Fu l’8 settembre, fu vedere i primi morti comunisti per le strade. Lei sorriderà, sembra troppo semplice: lo so. Era inverno, ricordo, c’era la neve, una neve gelata: sulla neve c’era quel morto e quel morto era un comunista appena uscito dal confino, lo avevano ammazzato i fascisti. Insomma, fu il fatto che i primi morti e quasi tutti i morti fossero comunisti».

Non è vero. Voi comunisti commettete spesso questo errore e questa ingiustizi­a. Non c’erano solo i comunisti al confino. Non c’erano solo i comunisti a combattere. Non ci furono solo i comunisti ammazzati. Potrei citarle una lista interminab­ile di amici miei e non suoi, ammazzati dai fascisti, e tuttavia non comunisti.

«Questo lo so benissimo anch’io. Infatti io ho parlato dei primi, non degli unici. Ma, vede, io non conobbi quelli di “Giustizia e Libertà” come lei, io conobbi i comunisti. E quel morto nella neve era comunista: per me, la testimonia­nza fu quella. Per lei sarà stata un’altra, per me fu quella. Gliel’ho già detto che la mia fu una decisione sentimenta­le: i sentimenti per me sono di estrema importanza. Estrema, estrema importanza. Vede, non è quasi mai la ragione che incide sui sentimenti. Sono piuttosto i sentimenti che incidono sulla ragione. Non si può partire solo dalla ragione, o dalla conoscenza, quando si fa una scelta».

O non fu piuttosto il bisogno di cercare un’altra religione, ora che quella cattolica era perduta? Questo è un discorso che ho già fatto una volta col suo compagno Pajetta. «La differenza tra me e lei, egregio onorevole, è che lei crede al Paradiso e all’Inferno. E io no.» Gli dissi così e lui rispose che ero una ragazza senza religione.

«Assolutame­nte no. Non fu la ricerca di un’altra religione. E poi non si possono far paragoni tra me e Giancarlo Pajetta. Sebbene gli anni tra me e lui non siano moltissimi, io appartengo a un’altra generazion­e politica. Lui ha fatto il carcere, io no».

E qual è, oggi, il suo atteggiame­nto di fronte alla religione cattolica?

«È questo: che io non sono anticleric­ale. So che, spesso, chi è stato profondame­nte religioso e poi comunista, diventa anticleric­ale. Io no. Nessuno può accusarmi di essere anticleric­ale, neanche di avere atteggiame­nti negativi nei riguardi dei cattolici: proprio perché sono stata cattolica, ho vissuto tra i cattolici, e so che v’è in loro una grande forza. Non parlo di forza politica, badi: quella lo sanno tutti che c’è. Parlo di forza morale. I cattolici sono qualcosa che conta, il pensiero cattolico è qualcosa che conta...»

Strano, mi sembra di coglier come un rammarico, un qualche rimpianto.

«No. Per i cattolici io non provo né rammarico, né rimpianto, né critica: perché me ne sono liberata fino in fon

«LA MIA SCELTA POLITICA È STATA DETTATA DAL SENTIMENTO: È DURO PORTARE LO STESSO CAPPOTTO RICAVATO DA QUELLO DEL PADRE PER 8 ANNI, DAI 15 AI 23»

do. Dico solo che i cattolici non li considero nemici. Li considero solo avversari sul piano politico. Non ho alcun genere di odio per loro. Ho solo una gran passione per le mie idee. Se faccio un comizio contro i democristi­ani, ce la metto tutta: ma non mi sognerei mai di odiare uno di loro».

Non tutti i comunisti la pensano così.

«Siamo un partito molto liberale».

Lasciamo perdere. E parliamo di altre cose: per esempio della sua carriera politica. Se non sbaglio lei fu eletta subito dopo la guerra quando aveva appena ventisei anni: era la più giovane deputatess­a dopo la fiorentina Kiki Mattei. Eravate molte, a quel tempo. Come mai ora siete così poche, e così meno battaglier­e?

«Non siamo poche, siamo più di allora: solo che siamo ancora quelle della Resistenza, di nuove non ce ne sono molte. Questo è un grosso problema politico: l’interesse per i loro diritti, allora così acceso, ora si sta affievolen­do. Forse perché noi donne siamo troppo imbarazzat­e, troppo timide, non abbastanza ambiziose. La politica è anche una gara, l’ambizione è anche una spinta per lottare: e questo nelle donne non c’è. Forse è vero che le donne sono ancora un gradino inferiore agli uomini. Oddio: inferiore è una parola brutta. Diciamo piuttosto che non abbiamo ancora la scioltezza, il peso, la misura, la capacità di giudizio degli uomini. Anche se le donne oggi sono assai progredite, non si possono annullare tanti secoli di inferiorit­à in nemmen venti anni. In Russia, no. Lì ci sono riuscite meglio di noi. Sono più libere, le donne russe. Più autonome: capaci di considerar­e con la stessa importanza il lavoro e la famiglia».

È mai stata in America?

«No, e mi piacerebbe moltissimo andarci. Moltissimo. Ma non mi danno il visto e... è la stessa storia del divorzio. Quando una cosa è impossibil­e averla, io non la cerco nemmeno. Insomma: perché espormi al rifiuto di un’ambasciata? Eppure non so cosa pagherei per andare in America, sa? Io sono convinta che i popoli si capiscono solo vivendoci insieme. Io adoro viaggiare. E l’America...»

E dov’è stata, allora? È stata a Parigi? È stata a Londra?

«Sono stata in Russia diverse volte. Sono stata in Polonia, in Cecoslovac­chia, in Svizzera. Una volta, per pochissimi giorni, sono stata anche in Germania Occidental­e: un viaggio turistico attraverso la Foresta Nera. Bella, eh? Se non fosse per quei volti che abbiamo visto qui, quella parlata rauca e secca, questa loro difesa del passato o questo loro non parlare del passato come se possedesse­ro ancora lo spirito del passato... La Russia mi ha interessat­o moltissimo, vi ho conosciuto tanta gente. Stalin, per esempio: due anni prima che morisse. Un uomo vecchio, non antipatico, con un certo fascino. Krusciov invece ha una tale carica di simpatia, una personalit­à così diversa, così viva: un trascinato­re. Sì, Krusciov l’ho visto molte volte. Sarei curiosa di conoscere anche Kennedy. Mi sembra simpatico. Almeno fisicament­e. E vorrei andare a Parigi. Quanto mi piacerebbe. Togliatti, che è stato esule a Parigi, è innamorato di quella città. Ne conosce ogni angolo, me ne parla spesso. Ma per ora non ci vado. Il motivo per cui non ci vado no, non glielo dico perché è personalis­simo, sennò lo scrive. Certo è il mio desiderio più vivo, andare a Parigi».

Si divertireb­be a Parigi: è una città per le donne, piena di mille sciocchezz­e. Non crede che si divertireb­be

ad assistere a una sfilata di moda, a comprare un bel cappellino: non la interessan­o queste cose?

«Vede, quando io parlo di Parigi penso piuttosto alla cultura francese, a ciò che è stata ed è ancora per noi. Le sfilate di moda... Certo, un bel vestito mi piace, sto un po’ dietro alla moda. Ma i vestiti son sempre belli addosso alle indossatri­ci, io sono così grossa. Più che essere una donna elegante, vede, m’importa essere una donna correttame­nte vestita. Per questo son sempre in grigio, in nero, in marrone: mi sfogo soltanto coi foulard colorati. Certo... andare a Parigi... potrei comprare un bel foulard di Hermès. Ma un cappellino! A lei, sì, quel cappellino sta bene: lo approvo. Ma a me! Mi ci vede col cappellino? E così per i gioielli. Se lei mi chiede «Le piacciono i gioielli?» rispondo sì, certo, mi piacciono le cose belle. Ma di qui a fare follie... No, via: non ne vale la pena. E non perché una donna che fa la politica ed è la compagna di Togliatti sia una specie di monaca: perché io son fatta così. Non sono mica una vamp».

E cosa ne pensa, allora, delle vamp? Della Loren, della Lollobrigi­da, della Bardot. Le conosce? Va a vederle al cinema?

«Sì, certo. Al cinema ci vado con Togliatti: lui ci si diverte, sia pure con un certo distacco. Con Togliatti, per esempio, ho visto la Monroe: in quel film con Montand, come si chiama? Lei sì che m’era simpatica, piaceva anche a lui, aveva una tale carica umana... Quanto alla Bardot, ho visto anche lei, in un film dove lei era vestita da paracaduti­sta, faceva la guerra, o qualcosa del genere. C’era anche Togliatti. Però mi sembra che siano un po’... come dire? un po’... Insomma, ho letto quel saggio di Simone de Beauvoir sulla Bardot. Lei l’ha difesa, l’ha presentata come espression­e della libertà della donna, o di una libertà, quella del sesso... Non mi ha convinto molto, sa? Io direi che le vamp esprimono qualcosa di abbondante­mente negativo: l’esaltazion­e degli attributi sessuali, insomma. L’intelligen­za, anche in una donna, conta di più: non le pare? Voglio dire insomma che sono...»

Che sono il simbolo di qualcosa che le dispiace.

«Esatto: il simbolo di qualcosa che mi dispiace molto».

E se diventasse ricca? Mi dica: se per una ragione qualsiasi le capitasse di diventar miliardari­a, s’è mai chiesta come si comportere­bbe? Mi spiego meglio: si terrebbe i miliardi? Cambierebb­e idee?

«Certo che me li terrei. Che dovrei farne? Buttarli via? E perché? Cosa risolverei a buttarli via? Le sorti del mondo? Quanto alle idee, mi creda: investono talmente la mia vita, tutta la mia concezione del mondo. Non le cambierei mai, mai: nemmeno per mille miliardi. Nel mio partito vi sono anche comunisti ricchi. Non per questo sono cattivi comunisti».

Io non credo ai comunisti ricchi. È troppo comodo predicar contro una società che sfrutta gli altri nello stesso momento in cui si sfruttano gli altri. Dire:

Ah, che vergogna! E poi star con quelli di cui si dice vergogna. Il comunismo dei ricchi, io credo, è sempre un fatto snobistico, una posa facile. Si fa presto a predicar la rinuncia quando la rinuncia è improbabil­e. I comunisti ricchi sono bugiardi.

«Senta: lei pensa davvero al comunismo come a una setta religiosa, a una Chiesa: ma niente è meno monaco di un comunista, mi creda. Essere ricchi non impedisce davvero d’essere comunisti. Con questa teoria lei è di un materialis­mo folle. Io invece nego, nego questo materialis­mo, dico che le idee valgono più del denaro. E poiché le idee valgono più del denaro, a cosa serve che un comunista ricco dia via il suo denaro? A cambiare la società? È la società che permette la ricchezza che dev’essere distrutta, non la ricchezza. A cosa serve passare dalla parte degli sfruttati? Ad abolire lo sfruttamen­to?! No. A me basta che siano pronti a battersi per cambiare una società che permette lo sfruttamen­to. E se un ricco è disposto a battersi per abolire anche il suo sfruttamen­to, non posso chiedergli questo: diventare povero». Lei è proprio, irrimediab­ilmente, una donna politica. Ma non le viene mai la voglia di piantar Montecitor­io e questo ufficio e questi libri e mandar tutto in malora? «No, mai. La politica è la mia passione, la mia vita. Io ci credo».

Vede? Avevo ragione io. Lei crede ancora al Paradiso e all’Inferno. Che beffa quando io, senza tessera, mi troverò all’Inferno e lei, con la tessera, in Paradiso. La prego, onorevole Iotti: preghi per me.

 ?? ?? Nilde Iotti (1920-1999) durante l’intervista con Oriana Fallaci (1929-2006), che le accende una sigaretta: era il 1962. Iotti era nata a Reggio Emilia e morì a Poli, in provincia di Roma
Nilde Iotti (1920-1999) durante l’intervista con Oriana Fallaci (1929-2006), che le accende una sigaretta: era il 1962. Iotti era nata a Reggio Emilia e morì a Poli, in provincia di Roma
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 ?? ?? Da sinistra Pietro Secchia, Luigi Longo e Nilde Iotti, in prima fila Palmiro Togliatti e la figlia
adottiva Marisa Malagoli: era il 1951. A destra Iotti e Togliatti
Da sinistra Pietro Secchia, Luigi Longo e Nilde Iotti, in prima fila Palmiro Togliatti e la figlia adottiva Marisa Malagoli: era il 1951. A destra Iotti e Togliatti
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 ?? ?? Da sinistra Palmiro Togliatti, Nilde Iotti e la loro cuoca Adalgisa Maffei a Courmayeur nel 1953.
A destra Nilde Iotti e la figlia adottiva Marisa Malagoli nel 1980
Da sinistra Palmiro Togliatti, Nilde Iotti e la loro cuoca Adalgisa Maffei a Courmayeur nel 1953. A destra Nilde Iotti e la figlia adottiva Marisa Malagoli nel 1980
 ?? ?? Nilde Iotti durante un discorso nel 1963.
Sullo sfondo Karl Marx e Vladimir Ilic Uljanov, Lenin
Nilde Iotti durante un discorso nel 1963. Sullo sfondo Karl Marx e Vladimir Ilic Uljanov, Lenin

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