FAUSTO E IAIO UNA FERITA DA CHIUDERE 46 ANNI DOPO
Tanti sospetti e ipotesi, nessuna certezza. Fino a che il caso dei due ragazzi di estrema sinistra fu archiviato. Perché la Procura ha deciso di riaprirlo?
Storia di Milano, storia d’Italia, storia eterna. Quarantasei anni tra un mese e mezzo. Il duplice omicidio di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci detto Iaio, caduti alle 20 di sabato 18 marzo 1978 qui in via Luigi Mancinelli, che fu un compositore ma non ci interessa: la strada a senso unico, stretta sulla sinistra dal retro della parrocchia e sulla destra dal deposito dei tram, fin dal suo inizio ha una targa diversa. Una scelta di popolo e non istituzionale: c’è appunto scritto via «Fausto e Iaio», i due 19enni che poi ricorrono in una frequenza di antichi e recenti murales nonché nella lapide a memoria dei «compagni assassinati dai fascisti».
Del resto in quest’angolo periferico, forse anonimo e di sicuro a suo modo anomalo, un quartiere dove resistono piccoli negozi di scarpe e cartolerie senza l’avanzata di quell’inquietante termine della sociologia qual è la gentrificazione, ecco, già subito venne pronunciata sentenza dai familiari, dagli amici, dagli abitanti: ad assassinare i ragazzi, militanti di sinistra, erano stati i neofascisti, che pure rivendicarono l’attentato. Invece no; non secondo la giustizia. E quale allora il mandante, quali i killer?
Accogliendo la richiesta del sindaco di Milano Giuseppe Sala a sua volta persuaso dal consigliere del Pd Rosario Pantaleo, ora la Procura, dopo indagini traversali, perizie, interrogatori, appostamenti e intercettazioni – chi ancora insiste su di un caso mai trattato mente oppure non ha letto le carte –, ha deciso di aprire un nuovo fascicolo alla ricerca di elementi inediti che forse potrebbero emergere dalle perizie e comparazioni balistiche.
GLI IMPERMEABILI
Rincasavano, Fausto e Lorenzo. Avevano trascorso il pomeriggio tra il non lontano parco Lambro, famigerato luogo
dell’epidemia di eroina, e l’altrettanto vicino centro sociale Leoncavallo. Erano a piedi. Avevano superato piazza San Materno e avevano girato a sinistra. Gli assassini li aspettavano. Erano tre. Almeno ad avallare le testimonianze rese da una donna e dalle due figlie minorenni che camminavano lì per caso.
I killer, dicevamo. Il numero 1: magro, sul metro e settanta, capelli scuri, impermeabile chiaro, apparente età giovanile; il numero 2: pressoché identico tranne un giubbotto color cammello; il numero 3: imprecisato nelle sue coordinate fisiche, eccetto, lui pure come il primo, con l’impermeabile chiaro.
Tre assassini, tre fantasmi. Duplice omicidio a colpi di pistola. Non un revolver bensì una semi-automatica (una Beretta), che dunque scarica i bossoli.
Di bossoli, sull’asfalto insanguinato di via Mancinelli/via Fausto e Iaio, non ce n’erano. Sempre quelle testimoni avevano evidenziato un particolare: uno degli sparatori teneva un sacchetto di plastica. Una pratica comune alla destra eversiva romana, avvolgere l’arma così da raccoglierne i bossoli e di conseguenza sottrarre indizi agli investigatori. Anche quegli impermeabili rimandavano all’abbigliamento indossato sulle scene del crimine dai neofascisti.
LE BUGIE DEL SACERDOTE
Agli inquirenti, nel successivo maggio, un avvocato rivelò una notizia che gli era stata donata, mai si seppe con quale strategia ultima, da un prete. Il sacerdote aveva confidato al legale il nome del mandante, pronunciato da due donne che l’avevano avvicinato. L’accusato era uno che campava vendendo dosi ai coetanei, inclusi gli stessi Fausto e Lorenzo, consumatori di hashish, contro i quali avrebbe pianificato una vendetta a causa di cessioni di stupefacente non pagate. E però, raggiunto dalla polizia il sacerdote mischiò le carte, disse e non disse, mentre le due donne, una la fidanzata di Lorenzo e l’altra la titolare di una pizzeria, garantirono che quello, cioè il prete, si fosse inventato tutto. Quanto a lui, al pusher, era estraneo poiché era estranea la pista della droga, e in ogni modo un creditore non uccide mai i propri debitori, semmai il contrario. Si perse tempo prezioso anche in aggiunta considerando un significativo disordine nelle indagini, con l’esasperata rivalità tra poliziotti e carabinieri. Ma era un classico.
IL CAPPELLO INSANGUINATO
Un berretto di lana. Colore blu. Cadde o venne abbandonato vicino a Fausto e Iaio (nessuna certezza sui proiettili estratti dai cadaveri, forse marca Winchester, forse marca Fiocchi). Il cappello non apparteneva ai due ragazzi. Nella zona, un berretto identico lo portava un neofascista il quale, giorni prima, ave
LA DESTRA EVERSIVA RIVENDICÒ L’AGGUATO, MA I GIUDICI NEL 2000 DEFINIRONO «ILLOGICA» QUELLA RICOSTRUZIONE
va subìto al parco Lambro un agguato a colpi di spranga per mano di estremisti di sinistra. Per la sera dell’agguato in via Mancinelli/via Fausto e Iaio, il neofascista aveva un alibi, confermato però soltanto in parte dagli amici. Nelle ore successive al duplice omicidio, era sparito: per paura che gli attribuissero l’agguato e cercassero di ammazzarlo, si difese più avanti. E il cappello? Come rimarcato nel decreto di archiviazione datato dicembre 2000 e firmato dal giudice Clementina Forleo, quel berretto «non verrà mai sottoposto ad alcun accertamento risultando anzi a un certo punto dell’indagine non più presente tra i reperti. Nel 1988, infatti, a seguito di apposita richiesta del giudice istruttore, il responsabile dell’Ufficio corpi di reato dichiarava che il cappello in questione non era stato più rinvenuto e che con ogni probabilità era stato eliminato per motivi di igiene a seguito di alluvioni che avevano colpito il luogo in cui lo stesso era custodito».
I ROMANI
Massimo Carminati, il boss della banda della Magliana, arrestato nel 2014 per l’inchiesta «Mafia capitale», è nato a Milano ed era a Milano negli anni dell’uccisione di Fausto e Lorenzo: secondo le indagini dell’allora giudice istruttore Guido Salvini sul finire degli anni Novanta, il killer numero 1 descritto dalla mamma e dalle figlie – quello magro, sul metro e settanta, capelli scuri, impermeabile chiaro, apparente età giovanile – sarebbe stato proprio Massimo Carminati. Prove decisive? Nessuna.
Andiamo avanti. Angelo Izzo, ovvero «il mostro del Circeo», nelle sue collaborazioni con gli inquirenti riferì di un episodio «riconducibile come modus operandi all’omicidio di Fausto e Iaio» condotto da elementi dell’estrema destra romana saliti in città con l’incarico di ammazzare Andrea Bellini, esponente del Leoncavallo. L’attentato fallì. Bellini stava compilando un libro bianco sull’eroina, un dossier con nomi, cognomi, bande, appoggi.
Andiamo avanti. Claudio Bracci e Mario Corsi, neofascisti. Nella casa a Roma di Bracci, gli investigatori isolarono fotografie dei due ragazzi assassinati e dei funerali. In precedenza, quelle fotografie erano state custodite nell’archivio di un suo zio a Cremona. Scrisse Salvini: «La disponibilità di queste immagini appare assolutamente ingiustificata trattandosi non di fotografie di camerati ma di avversari politici caduti per più in un’altra città». Quello zio, che era un giornalista e dirigeva una rivista pubblicata in Belgio, sostenne l’assenza di ogni anomalia, le immagini provenivano da agenzie di stampa, se l’era procurate per ragioni professionali, punto. Andiamo avanti. Prima e dopo quel sabato 18 marzo 1978, un gruppo di neofascisti sostò a Cremona. Nel gruppo c’era Corsi. Prove decisive contro Bracci e Corsi? Nessuna.
Andiamo avanti. Fausto Tinelli abitava in via Montenevoso 9, nel condominio collocato di fronte al palazzo al civico 8, quello della famosissima base delle Brigate rosse scoperta il primo ottobre sempre di quell’anno dai carabinieri del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. All’interno, l’archivio delle Br e una parte delle pagine del memoriale di Aldo Moro. Ulteriore versione: Fausto e Iaio avevano visto e sentito quello che non avrebbero dovuto vedere né sentire. Testimoni scomodi. Da far scomparire. Eppure, e ci affidiamo ancora al giudice Forleo nella sentenza di archiviazione del 1990, «la rivendicazione del delitto da parte di più forze, tutte della destra eversiva, finisce per minare alla base la logicità di tale possibile spiegazione. Non si comprende perché gruppi dell’estrema destra avrebbero dovuto accollarsi un delitto di appartenenza ad opposta area terroristico-eversiva». A meno che qualcuno non avesse voluto, con la duplice uccisione, inviare un messaggio alle Brigate rosse sulla gestione – gli arresti, gli interrogatori – successiva alla scoperta della base terroristica. Un avvertimento. Magari «ad opera di forze come i Servizi segreti».