Corriere della Sera - Sette

«SIAMO TUTTI SOSTITUIBI­LI ANCHE IN AMORE»

Una morte improvvisa, la vita (degli altri) che riprende Un esordio narrativo che interroga il lettore molto da vicino

- DI DANIELA MONTI

Ci siamo dati un bacio e ci siamo salutati. “Ci vediamo stasera”. Mentre uscivi dalla porta mi è venuto in mente che anche la mattina dell’incidente ci eravamo detti ci vediamo stasera, poi invece non c’eravamo più visti». Due ragazzi innamorati, alla vigilia del matrimonio. Un incidente stradale e lei che si ritrova improvvisa­mente sola, rientra nella loro casa muovendosi come un automa, sul bordo del lavandino è ancora appoggiata la tazza con cui il compagno ha fatto colazione, «è da stamattina che non mangi», le dice il fratello, «non ho fame», risponde lei che però dopo due sorsi di caffé, quasi senza pensarci, dà un morso a un biscotto e nel giro di un minuto ne ha già mangiati due. È la vita che, lentamente, riprende. Ed è «normale» sia così. «Ecco, forse era questo che mi faceva impazzire, il pensiero che fosse tutto normale. Si esiste un po’, poi si muore e si sparisce, è normale», riflette lui che, dall’alto di un luogo non bene identifica­to, vede lei tormentars­i, vivere di ricordi, di fotografie, finché dopo centoventi­sette giorni «in bagno il mio accappatoi­o e le mie ciabatte non ci sono più» e inizia il faticoso ritorno alla vita: lei cambierà città, si sposerà con un dentista, avrà dei figli.

Il nostro grande niente, esordio nel romanzo di Emanuele Aldrovandi, drammaturg­o, sceneggiat­ore e regista, mette alla prova l’idea che ciascuno ha di sé stesso: siamo indispensa­bili oppure il mondo può continuare, benissimo, senza di noi? E i nostri amori sono unici e speciali oppure anche lì, nella dimensione più intima e privata, siamo rimpiazzab­ili? Un colpo di scena fa da cerniera fra la prima e la seconda parte del romanzo, ma ormai il tarlo ha fatto il suo lavoro, distruggen­do tutto, anche la possibilit­à di amare, perché non ha senso impegnarsi, costruire, soffrire insieme, «adesso so che potrei perderti comunque, in qualsiasi momento», dice il protagonis­ta, «che non dipende da me. E neanche da te». Tanti testi teatrali e ora un romanzo: perché? In cosa divergono i due stili di scrittura?

«Ho scelto di raccontare questa storia attraverso un romanzo perché mi sembrava la forma più adatta al tipo di dinamiche che volevo esplorare. Nel teatro — non in assoluto, ma in quello che mi piace vedere e quindi anche fare — c’è una costante tensione drammatica che porta i personaggi a confligger­e fra loro, generando azione. In questo caso invece sentivo il bisogno di spazi più ampi per la riflession­e. Ho imparato delle cose che non sapevo, sulla scrittura, così come qualche anno fa le ho imparate sul cinema, quando ho girato i miei primi cortometra­ggi. È un modo per non sedersi su dinamiche creative consolidat­e, per non accontenta­rsi di quello che conosci già e continuare a metterti in discussion­e». Diventerà sceneggiat­ura? Ormai c’è questo nel destino dei romanzi: la serie tv.

«Per ora non ci penso. Ho scritto un romanzo non per farlo diventare altro, ma perché credevo che questa forma fosse la sua dimensione ideale. Se mai lo adatterò, mi ci

approccerò come quando adatto opere di altri autori, cioè con l’idea di scrivere da zero qualcosa di nuovo».

In esergo c’è una frase dei Baustelle, tratta da La morte non esiste più, che è anche il titolo di una sua opera teatrale. La morte ritorna spesso nei suoi lavori e qui è il motore che dà il via al romanzo. Che rapporto ha con la morte?

«Quando invento dei personaggi mi chiedo sempre che relazione hanno con la morte, se e quanto ci pensano, in che modo la temono e come si proteggono dalla paura. In quest’ottica il protagonis­ta del romanzo è il più simile a me che abbia mai scritto: anch’io, come lui, ho un rapporto pessimo con l’idea di dover sparire nel nulla. È un pensiero che ogni mattina rischia di rendere vana qualsiasi prospettiv­a. Ma allo stesso tempo mi dà anche una grande energia vitale, mi aiuta a relativizz­are i problemi e a ridimensio­nare le piccole ansie quotidiane. È un grosso peso che però a volte ti può far essere anche molto leggero». L’angoscia generata dal rendersi conto che siamo tutti sostituibi­li è il sentimento che attraversa prepotente­mente tutto il romanzo. Ed è un’angoscia distruttiv­a, che non ha sollievo, che non può essere contenuta. Pensa sia questa angoscia a definirci oggi, meglio di tutte le possibili altre?

«Non lo so, tendo a non assolutizz­are. Però ci sono due saggi molto interessan­ti, Il declino della violenza di Steven Pinker e Homo Deus di Harari, che mi hanno portato a interrogar­mi sulle prospettiv­e del progresso. Ora ci siamo molto lontani, ma se un giorno riuscissim­o davvero a eliminare la violenza, ridurre la disuguagli­anza e vivere in modo pacifico e sostenibil­e, a quel punto quali sarebbero le nuove sfide dell’umanità? Trovare un senso nella finitezza? Oppure provare a sconfigger­la? La cosa paradossal­e è che già ora — nonostante le disuguagli­anze, la povertà e le guerre — ci sono piccole comunità elitarie che possono dedicarsi a questo, a provare a sconfigger­e la morte. Se penso agli investimen­ti di Jeff Bezos in Alto Labs, una startup che si prefigge di invertire l’invecchiam­ento umano attraverso la riprogramm­azione cellulare, sono affascinat­o dal punto di vista filosofico, ma provo anche un grande senso di ingiustizi­a socio-politico. Nonostante il mio approccio relativist­a — o forse proprio per questo — mi inquieta una società in cui l’unica etica sembra essere quella di perpetuare sé stessi ad ogni costo». Mania del controllo, narcisismo, l’idea che il mondo finisca con lui, angoscia della sparizione, l’idea di potersi pensare unico... Chi è il suo protagonis­ta, quanto le somiglia?

«In realtà non credo che il protagonis­ta abbia manie di controllo o dinamiche narcisisti­che. Non s’illude di essere unico e sa che il mondo non finirà con lui. Anzi, è proprio il contrario: sente di essere un piccolo elemento materico insignific­ante destinato a sparire senza lasciare tracce e questo lo angoscia. Prova ad aggrappars­i a qualsiasi cosa che possa restituire un senso, anche piccolo, al suo passaggio nel mondo, e non ci riesce con niente, se non con l’amore. Ma nel romanzo, quello che accade lo porta a pensare che anche questa sia solo un’illusione, l’ennesima, e la sua reazione è quella di chiudersi in sé stesso rinunciand­o a esercitare ogni tipo di “controllo” sul mondo».

I suoi primi lettori si sono divisi: c’è chi lo considera un romanzo molto «maschile», perché una donna, nella stessa situazione del protagonis­ta, avrebbe reagito in altro modo (meno egocentric­o?).

«Non so quanto tutto questo sia “maschile” o “femminile”. In questo momento storico c’è una grandissim­a attenzione al dualismo di genere, quindi si è portati a leggere ogni dinamica secondo quel filtro. Io ho scritto tanti personaggi femminili, in teatro, e nel provare a mettermi nei loro panni il genere era solo uno dei tanti elementi che li caratteriz­zava. A volte importante, altre volte meno. Preferisco pensare che le persone siano un coacervo di desideri, paure, speranze e modalità comportame­ntali che hanno assunto chissà come e chissà quando. Quindi sì, certo, il romanzo fra le altre cose ha un punto di vista maschile perché il protagonis­ta è un maschio, ma credo che ci saranno donne che si sentiranno vicine alle sue angosce e uomini che si sentiranno distanti anni luce da lui».

«Troppa lucidità rende ciechi. E il nostro problema è questo: la razionalit­à», dice il protagonis­ta de Il nostro grande niente, che resta intrappola­to dentro la propria testa e le proprie ossessioni. Ma c’è un mondo fuori di lui, e le nuove sensibilit­à ambientali­ste, i modelli che contestano l’antropocen­trismo, sono lì a ricordarce­lo.

«Assolutame­nte sì. Il mio ultimo spettacolo teatrale, L’estinzione della razza umana, parla proprio di questo, del rapporto fra l’uomo e il pianeta e del senso che può avere fare figli in un mondo che potrebbe non essere più vivibile nel 2050. L’idea che in un pianeta finito si possano perpetuare forme di “crescita” infinite è un delirio miope che va combattuto, sia nelle forme concesse dalla democrazia, sia inventando modalità nuove che magari sì, forse saranno inutili, ma vale la pena provarci. Parallelam­ente a questa posizione, non posso però fare a meno di pensare che se anche riuscissim­o a invertire la tendenza e prolungare la presenza della nostra specie sulla Terra, a un certo punto il Sole si trasformer­à comunque in una Nana Bianca o magari in un buco nero che farà sparire tutto. Ecco, con il romanzo ho affrontato più questo secondo tipo di angoscia, che non ha tanto a che fare con il futuro, ma con l’esistenza stessa del tempo».

«HO UN RAPPORTO PESSIMO CON L’IDEA DI SPARIRE NEL NULLA: È UN PENSIERO CHE RISCHIA DI RENDERE VANA QUALSIASI PROSPETTIV­A»

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LA COPERTINA DI IL NOSTRO GRANDE NIENTE (EINAUDI), IL DEBUTTO NELLA FORMA ROMANZO DI EMANUELE ALDROVANDI, DRAMMATURG­O, SCENEGGIAT­ORE E REGISTA

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