«VOGLIO SOLO MORIRE» L’IMAM RAPITO A MILANO DAGLI USA
A oltre 20 anni dal caso, il religioso 61enne racconta a due registe italiane le torture subite
L’uomo vende saponi e casalinghi in un negozietto tra i vicoli di Alessandria d’Egitto. Indossa una camicia a quadretti a maniche corte. Da un orecchio non sente quasi più nulla. Per questo parla a voce alta. Spiega che la sordità è conseguenza delle violenze in carcere. Il Mukhabarat, la polizia segreta egiziana, lo «osserva» ancora. Quando a osservarlo era la Cia, a Milano, indossava una jalabya bianca, pantaloni e giacconi larghi, la barba gli arrivava al petto. Era un imam.
Gli agenti americani lo rapirono il 17 febbraio 2003 in via Guerzoni, vicino alla moschea di viale Jenner. Aveva 40 anni. Tra pochi giorni ne compirà 61. Nelle sentenze del Tribunale di Milano compare sia come colpevole (condannato a 6 anni per terrorismo), sia come vittima: della extraordinary rendition organizzata dalla Cia sul territorio d’un Paese europeo, alleato, in spregio della sovranità nazionale e delle inchieste in corso. Caso internazionale che picchia ancora su un dilemma: quanto possono diventare elastiche le regole della democrazia di fronte a una minaccia per la sicurezza nazionale? Per provare a rispondere bisogna anche chiedersi: chi è oggi Abu Omar? Lo hanno ascoltato per ore, con la telecamera accesa, nella sua casa di Alessandria, le due registe Flavia Triggiani e Marina Loi: «Appare piuttosto malato e provato. Per la prima volta ha raccontato in video e in esclusiva il suo rapimento e le torture a cui è stato sottoposto. Ci ha detto che aspetta solo di morire».
Parole dell’ex detenuto fantasma. Che è il titolo del documentario Ghost Detainee – Il caso Abu Omar, nelle sale dal 5 febbraio, distribuito da Ilbe, che lo ha prodotto con In Bloom, Flair Media Production e La7. Storia dimenticata. Verità giudiziaria monca. Condanne per gli agenti americani che fecero il rapimento mai eseguite, processo ai vertici del Sismi mai fatto per il segreto di Stato. Perché andare a recuperare questo caso? «La distanza temporale lo pone fuori della cronaca e permette di storicizzarlo», riflettono Triggiani e Loi. «Sappiamo ormai cosa siano stati l’11 Settembre, la guerra al terrorismo, Guantanamo. Ma se i fatti sono storici, la domanda sul caso Abu Omar è estremamente attuale. Come si deve comportare, come può reagire, e fino a che punto può spingersi una democrazia nel contrasto al terrorismo? Se pensiamo a cosa stia accadendo tra Israele e Hamas, la rendition di Abu Omar ritorna come un potentissimo specchio di riflessione».
Il documentario, scritto in collaborazione col giornalista Luca Fazzo e dedicato alla memoria di Andrea Purgatori (che lo aveva seguito e sostenuto prima della scomparsa) incrocia le testimonianze della moglie dell’ex imam, Nabila Ghali, dei giornalisti Matthew Cole, per anni Nbc News ,e Sebastian Rotella, del Los Angeles Times, i ricordi del magistrato Armando Spataro, che ha guidato l’inchiesta e il processo, e infine per la prima volta la versione di Niccolò Pollari, al tempo capo dei servizi segreti. Che rivendica la propria totale estraneità agli eventi. Non la pensava così la Procura di Milano, che chiedeva un processo. Concludono le registe: «Abbiamo cercato di raccontare i fatti in profondità, senza tesi preconcette, perché ognuno possa riflettere sulle verità e sulle ombre».