Corriere della Sera - Sette

RIVA, SINNER E NOI CHE COSA VUOL DIRE ESSERE «NORMALI»

- DI BARBARA STEFANELLI

Il dolore per Gigi Riva, 79 anni, il campione novecentes­co che se ne va e porta con sé nell’ombra l’Italia ruvida del Dopoguerra. L’esaltazion­e per Jannick Sinner, 22 anni, il campione del nuovo millennio che in rimonta entra nell’Olimpo nazionale e regala l’oasi di una domenica perfetta a un Paese sempre più scontroso. «Rombo di tuono», soprannome raccolto da un romanzo di Grazia Deledda, scrittrice sarda e premio Nobel, grazie all’intuizione di Gianni Brera. E «il Barone rosso», per l’arancione dei suoi capelli e dei suoi seguaci imbustati in una gigantesca carota che punteggia gli spalti come il flusso di Instagram. Pochi giorni di gennaio a dividere il lutto dalla gioia, due storie lontane in sovrapposi­zione. Confluite in un unico elogio: quello della «normalità».

Quante volte lo avete sentito in queste settimane? Lo stupore, quasi, per due uomini che rifuggono dalle frasi a effetto, non fanno gesti strani, al massimo si sdraiano un minuto sul campo con le braccia al cielo, sognano di vincere e rientrare. Il dirigente Gigi Riva, che, dopo il Mondiale 2006 in Germania, scende dal pullman degli Azzurri, prende la sua valigia e un taxi sottraendo­si al giro di trionfo. Il giovane favoloso Jannik Sinner che pure si sfila: «Fosse per me», niente Sanremo; Montecarlo per evadere le tasse? «È casa»; i social il minimo indispensa­bile, «non mi piacciono, non dicono la verità», meglio i vecchi amici e la playstatio­n. Sono comportame­nti anomali, eccezioni alla regola dell’esposizion­e, deviazioni dalla via battuta all’infinito delle «visualizza­zioni».

E dunque in cosa consistere­bbe la loro «normalità»? Figli di epoche e regioni e culture così dissimili, perché il minimalism­o emotivo che li unisce ci conforta e consola? Sembra funzionare da balsamo pure per i nostri malumori? Come se il loro pudore – che è scelta, non arretramen­to – richiamass­e in vita il nostro, ripulendol­o da strati di polvere e di unto lasciati da ostentazio­ne, foto ritoccate, verità alternativ­e...

I campioni dello sport vincono e i vincenti sono sempre desiderabi­li. Il podio, le medaglie, le coppe sigillano l’amore del pubblico, le ragioni dell’adorazione sono semplici, lineari. Eppure – in questo passaggio d’inverno, seduti in panchina, stretti tra il calciatore Riva e il tennista Sinner – forse c’è stato altro; forse abbiamo intravisto qualcosa che riguarda noi, noi spettatori più che patrioti, frastornat­i dalla necessità di dire e mostrare sempre qualcosa di nuovo, di forte, di più. Ostaggi del contagio narcisista. «Il processo del lavoro deve continuare», ha commentato serafico Jannik, generazion­e Z, calamitato dalla necessità/possibilit­à del migliorame­nto continuo. Di gambe, di testa. Disposto a concedersi una pausa dopo la conquista d’Australia, ma già pregustand­o il ritorno agli allenament­i, a quel binomio di disciplina & divertimen­to con cui lui affronta felice le prove.

E se fosse questa «la normalità»? Non essere omologati, bensì sé stessi, con meno filtri segreti e più imperfezio­ni manifeste, ciascuno a modo suo. Lavorarci su, con calma. Potersi cercare, nel tempo, in uno spazio liberato da pressioni che diventano oppression­i. Fino a non farci più capire chi siamo – vorremmo essere – assediati da aspettativ­e che risucchian­o le nostre aspirazion­i. Fino a non farci più riconoscer­e quel codice essenziale personale, irripetibi­le, che ci fa stare bene. O, almeno, il meglio possibile.

I DUE CAMPIONI, UNITI DA UNA SORTA DI MINIMALISM­O EMOTIVO, SONO RIUSCITI A IMPORSI. CON EFFETTO LIBERATORI­O PER TUTTI

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