«LA BICI E LE RISATE PER COMBATTERE IL DISAGIO GIOVANILE»
Ha creato l’associazione “C’è da fare”: negli ospedali Gaslini e Niguarda percorsi con educatori e psicologi
Tagli, ferite, bruciature di sigarette sul corpo sono solo alcuni dei più comuni atti di autolesionismo che si registrano tra gli adolescenti oggi. Un fenomeno grave che è solo la punta dell’iceberg di un universo molto più complesso che coinvolge ragazzi e ragazze tra i 13 e i 17 anni. L’autolesionismo colpisce in Europa 1 adolescente su 5. Ad oggi, nonostante l’Italia sia tra i Paesi con il tasso più basso al mondo, il suicidio è la seconda causa di morte da noi per i giovani tra i 12 e 24 anni». Così Paolo Kessisoglu, 54 anni, attore conduttore e cabarettista, spiega con un video su www.cedafare.org i motivi che l’hanno spinto a fondare, ad aprile 2023, l’omonima associazione che riprende il titolo della canzone da lui stesso scritta nel 2019, C’è da fare, e interpretata insieme a 25 big della musica. Nel testo il racconto della sua Genova. «È nata dopo il crollo del Ponte Morandi, il ricavato è andato a una piccola onlus con l’obiettivo di aiutare persone in stato di fragilità. Da lì, grazie a un evento sportivo a cui già in passato avevo partecipato, ho pensato di creare una mia squadra di ciclisti amatoriali che aveva come obiettivo quello di raccogliere fondi per un progetto che metteva al centro i giovani».
Perché proprio loro?
«Durante e dopo la pandemia ho letto numeri incredibili di ragazzi che manifestano in modo sempre più crescente il loro disagio psichico». Alcuni di questi numeri Kessisoglu li ricorda nello stesso video on line: l’accesso agli ospedali di ragazzi con disturbi del comportamento alimentare è cresciuto del 78,4%; quello di giovani depressi del 115%; mentre il dato di chi ha tentato il suicidio è aumentato del 147%. Il primo progetto è stata una collaborazione con l’ospedale Gaslini di Genova.
«Si chiama “C’è da fare… E ascoltare”.
Grazie a una raccolta fondi di 50.000 euro abbiamo dato un sostegno – a domicilio – a ragazzi Hikikomori che soffrono di un forte disagio emotivo: non escono di casa, a volte neppure dalla loro camera, e faticano persino a frequentare la scuola. Questi fondi coprono i costi delle visite di psicologi e educatori che forniscono un percorso personalizzato».
Così avete aiutato i primi 13 ragazzi, che hanno tra i 12 e i 18 anni.
«Dall’energia arrivata con l’avverarsi di quel primo progetto e dalle parole di medici, psicologi, neuropsichiatri ho capito che non potevo fermarmi. Avevo ancora più chiara la dimensione di un’emergenza di cui si parla ancora troppo poco. Così ho fatto il grande passo e ho creato l’associazione insieme a Silvia
Rocchi (architetto, milanese d’adozione, mamma di due adolescenti, ndr) e ad Alessio Piceno, oggi responsabile della comunicazione».
Al nucleo composto da voi tre si aggiungono altri 12 soci fondatori, 3 soci sostenitori, i membri del comitato scientifico e una ventina di volontari.
«È stata un po’ una follia. Oggi le associazioni non si chiamo più onlus, ma ETS (Ente Terzo Settore) e per essere riconosciuti bisogna avere un capitale sociale: per mettere insieme 15.000 euro abbiamo cercato 15 amici che hanno scelto di credere in “C’è da fare”».
Ora state lavorando a nuovi progetti.
«Ci muoviamo in un ambito molto ampio su tutto ciò che possiamo definire “disagio giovanile”: l’isolamento, l’alienazione, il ritiro sociale, ma anche i disturbi del comportamento alimentare e l’autolesionismo, che va dal tagliarsi al tentare il suicidio. Senza dimenticare l’alcolismo, la depressione, le crisi d’ansia. Stiamo parlando di ragazzi che hanno tra i 12 e i 19 anni, con un focus centrale massiccio tra i 15 e i 18. E a volte si va anche oltre quell’età».
Cosa fate in concreto?
«Di recente, ad esempio, abbiamo iniziato un percorso con l’Ospedale Niguarda di Milano: abbiamo previsto un nuovo protocollo, insostenibile per il Sistema Sanitario Nazionale, che prevede che il ragazzo che arriva in ambulatorio perché ha tentato di togliersi la vita o che viene segnalato da assistenti sociali, invece di avere un incontro immediato e poi rischiare di perdersi, trova una task force dedicata con un programma preciso che prevede tre momenti settimanali con lo psicologo, un neopsichiatra dedicato, psicologi che parlano con la famiglia, educatori che aiutano i ragazzi a tornare alla vita normale accompagnandoli a fare la spesa, a correre, a fare altre attività. Tutti i progetti che stiamo sviluppando nascono grazie al comitato tecnico-scientifico interno all’associazione, composto da esperti e persone che lavorano da anni con i ragazzi. Sono loro che si interfacciano con gli ospedali per presentare le nostre idee e trovare la formula migliore per svilupparle. Non vado certo io. Io sono quello che trova il grano, che ha magari un’idea creativa; ma sono poi loro a trasformare tutto in qualcosa di concreto».
Come trovate i fondi?
«Creiamo eventi, come lo spettacolo teatrale C’è da ridere che abbiamo già presentato a Varese e che vorremmo replicare a Milano. Con noi c’erano anche Geppi Cucciari, Andrea Pucci, Katia Follesa. Diamo vita a eventi sportivi oppure vi partecipiamo, come nel caso della Milano Marathon del prossimo 7 aprile: abbiamo acquistato un pacchetto platinum, ovvero 80 staffette, facendo un investimento importante. Questo significa che correranno con le nostre maglie 320 atleti generando un volano solidale: con una donazione minima di 500 euro per ogni staffetta, ci aiuteranno a proseguire con i nostri progetti. Il 7 e 8 giugno poi correremo, per il terzo anno, la 24h di Feltre, la gara di bicicletta che ci ha visto nascere; mentre il 7 luglio parteciperemo alla Maratona delle Dolomiti, una gran fondo in bici che ogni anno sposa tre progetti solidali ai quali vanno i proventi dei pettorali venduti a prezzo maggiorato a chi non si è iscritto in tempo. E uno dei progetti, per questa edizione è il nostro».
Nei prossimi mesi “c’è da fare”.
«Nei prossimi mesi e anche oltre. Il nome dell’associazione va di pari passo con ciò che ci siamo prefissati, perché c’è da fare davvero e noi abbiamo scelto di provarci in modo concreto». Osservando i ragazzi di oggi e le difficoltà che incontrano, che idea si è fatto: il disagio che affrontano è solo l’effetto della pandemia o incidono anche le attese che noi genitori abbiamo nei loro confronti, le pressioni di una società che li vuole “perfetti”?
«Non so se mi sono fatto un’idea precisa. Ci sono fior fiore di specialisti che stanno studiando i motivi e forse li sapremo tra vent’anni. O magari, mai. Avremo tante opinioni, tanti pareri… ma chi lo sa dove sta la verità. Sicuramente la generazione dei nostri genitori era molto diversa da come siamo noi genitori di oggi. Intanto i nostri figli vivono in un’epoca di grande tecnologia e – a differenza nostra che avevamo come riferimento gli amici, i compagni di scuola, i familiari –, loro almeno virtualmente si confrontano con milioni di persone, quindi si sentono più giudicati, più soli. E poi certo, noi li abbiamo protetti troppo. I nostri genitori erano più distanti, mia madre e mio madre non sapevano sempre cosa stessi facendo. Adesso, da un punto di vista dell’attenzione e dell’ascolto siamo apparentemente più vicini ai ragazzi, ma allo stesso tempo siamo estremamente lontani da loro. Vogliamo controllarli e proteggerli, ma c’è una distanza dovuta alla comprensione del loro mondo che è molto complicato e che non siamo sempre in grado di comprendere fino in fondo».
I RAGAZZI CON DISTURBI ALIMENTARI SONO CRESCIUTI DEL 78,4%, QUELLI CON DEPRESSIONE DEL 115%, CON ISTINTI SUICIDI DEL 147%