«EMILIA E LE SUE SORELLE TUTTE ARRABBIATE E AFFAMATE DI EMANCIPAZIONE»
La scrittrice torna con il romanzo Cuore Nero. La protagonista è una giovane donna che ha compiuto il male, ma cerca redenzione e riesce infine ad accettarla. «Per scrivere sono stata in un carcere minorile»
Cuore Nero, il nuovo romanzo di Silvia Avallone, racconta il male, ma anche la fragilità e la redazione. Il dolore e il modo che ognuno ha di affrontarlo. L’amore e l’odio cieco, la purezza di un paese di montagna e il microcosmo di un carcere minorile. La protagonista si chiama Emilia, fisico minuto, capelli rossi. Un passato da nascondere, che irrompe all’improvviso, come una folata di vento che spalanca tutte le finestre delle anime vicine a lei.
Come è nato il personaggio di Emilia?
«Era nella mia testa da molto tempo. Ho dovuto trovare le forze umane e morali per affrontarla. Mi sono sempre chiesta come una persona che ha compiuto il male in modo irreparabile possa poi ricominciare accanto a una macchia così grande. È una crepa: da un lato c’è il crimine, che non si può riparare del tutto, dall’altra c’è la vita che continua e ti chiama. Sarai per sempre una colpevole, ma continui a essere una figlia, una fidanzata, una lavoratrice. Potevo affrontare queste domande solo attraverso un personaggio femminile più o meno della mia età ».
Emilia viene definita come «un’adolescente di trent’anni», cristallizzata nell’età in cui tutto succede. È la sua prima protagonista adulta, ma comunque legata all’adolescenza, come quelle dei romanzi precedenti, da Acciaio a Un’amicizia. Non riesce a stare lontana da questa età?
«Perché è il momento in cui ci si tuffa, letteralmente, nella vita. Ho dato voce a tante adolescenze, non a quella negata. Emilia, ma pure Bruno, l’altro protagonista di Cuore Nero, non hanno vissuto davvero quell’età, sono rimasti congelati dentro un dolore che ha tolto loro tutte le energie quando sarebbero dovute esplodere. Ho voluto raccontare due personaggi a cui era completamente mancata una fase importante dell’esistenza».
Emilia è diversa dalle sue altre creature letterarie, eppure le ricorda in alcuni momenti o tratti del carattere.
«Perché Anna, Francesca, Marina, Adele, Elisa e Emilia, in fondo, sono tutte sorelle. Quest’ultima è
la più cupa, ma mantiene una sua tenerezza. Attraversa emozioni che hanno vissuto anche le altre. In tutti i miei romanzi, ad esempio, c’è una scena in una discoteca: il Pattinodromo di Acciaio, il Babilonia di Un’amicizia. Emilia non ha potuto andare in discoteca da ragazzina, lo fa da adulta e per lei è una catarsi. Balla una hit di quando aveva 16 anni, con gli anfibi sporchi di fango, in mezzo ai giovani. Lì si uniforma perché anche lei è assetata di vita e in quei momenti riesce a dirselo, si lascia andare e non pensa più di non meritare nessuna occasione. In quel momento è come tutte le mie altre adolescenti, che vogliono gridare al mondo la bellezza di essere qui e ora, con una vita davanti».
Tra le sue protagoniste ce ne è una a cui è più affezionata?
«Mi viene da dire Emilia, forse perché è l’ultima. Però ho solidarizzato con tutte, sono accomunate dalla rabbia, dalla voglia di uscire dalla gabbia in cui si sentono rinchiuse. Quella di Emilia è una prigione vera, le altre hanno forme diverse: un quartiere disagiato, una famiglia disfunzionale. Sono affamate di emancipazione. Per loro tutto è più difficile proprio perché sono ragazze».
In ogni romanzo racconta l’estate 2001, cruciale anche in Cuore nero. Perché?
«È la mia estate, avevo 17 anni, si è conclusa con il crollo delle Torri Gemelle. Per me è stato il momento dell’iniziazione alla Storia con la “S” maiuscola e delle prime rivelazioni, delle prime libertà, le prime sere fuori da sola fino a tardi. Ho provato un sentimento di potenza e scoperta del mondo che mi ha accesa come mai prima. In quell’estate c’è una parte di me molto importante. Sono felicissima di essere come sono ora, a 40 anni, ma porto sempre nel cuore quella stagione potentissima in cui c’ero solo io. Prima ero figlia, poi sono stata madre, in quell’estate ero io da sola, pronta a buttarmi nel mondo».
Perché la voce narrante di Cuore Nero è Bruno e non Emilia?
«È stata una scelta istintiva. Ho imparato ormai che non devo pensare troppo e fidarmi dei personaggi. Sono loro a indicarmi la strada. Sono partita con l’idea di voler interrogare Emilia per capirla, poi ho pensato che l’unico modo in cui potevo raccontare una storia del genere era attraverso lo sguardo di una persona innamorata, che all’inizio non sa nulla, ma lo scopre pian piano. Cosa fai se vieni a sapere che una persona ha commesso un delitto orribile, ma tu ti sei innamorato di lei? È troppo facile, anche da lettore, dire. “Basta non voglio saperne più niente”, quando ormai provi un sentimento e hai visto anche il lato migliore di questa donna. La grande difficoltà, che tento di far emergere in questo libro, è tenere insieme l’umanità e il male senza ridimensionarlo, ma immaginando una possibilità di redenzione. L’idea di una storia d’amore è nata in modo spontaneo, ma ho voluto che fosse un uomo a raccontarla, un uomo buono, oltre gli stereotipi. Bruno si è completamente lasciato il maschilismo alle spalle. Poi, confesso, mi piaceva anche l’idea di farmi uomo io stessa. La libertà è uno dei grandi poteri della scrittura, grazie a lei ho potuto mettermi nei panni di un uomo che tende la mano, sa prendersi cura. Un uomo come dovrebbero essere tutti gli uomini in questo momento storico».
Il padre di Emilia è un altro personaggio maschile importante. Lo definirei struggente, ma con una grande dignità. Ricorda Francesco De Nardo, il padre di Erika, che, nel 2001, uccise la mamma e il fratellino con la complicità dell’allora fidanzato Omar Favaro. Si è ispirata a lui?
«Il delitto di Novi Ligure è impresso nella mia memoria perché, all’epoca dei fatti, io e Erika avevamo la stessa età. Fu un caso devastante, che ha segnato il nostro Paese. Francesco De Nardo mi ha commosso in senso profondo, direi religioso, pur non essendo io credente. Però non ho pensato solo a lui. Ho sempre dedicato, anche prima di questo romanzo, un’attenzione particolare ai genitori dei ragazzi che compiono il male. Non penso esista una situazione più complessa per una madre o un padre. Stare accanto a un figlio assassino vuol dire non voltarsi dall’altra parte, ma nemmeno giustificare. Accanto alla responsabilità di un genitore c’è quella di tutti gli adulti che non sono stati capaci di intercettare un malessere profondo. Sono temi molto complessi, non ho soluzioni e non ne do nel libro».
Ha studiato molti casi di cronaca nera?
«No. Mi sono fatta guidare dalla letteratura, altrimenti non avrei mai potuto scrivere questo libro. Sono partita da due grandi personaggi». Quali?
«Raskol’nikov di Delitto e Castigo e Fra Cristoforo dei Promessi sposi. Il primo perché è un assassino, ma, incredibilmente, ti ritrovi a fare il tifo per lui. È una delle cose che mi ha sempre sconvolto del capolavoro di Dostoevskij. Il secondo per la sua
umanità. La letteratura insegna che il male non si cura con il male, la vendetta non porta a nulla. Il male si affronta solo con il bene. Non vuol dire cancellarlo, ma accanto a una nefandezza già compiuta si può ricostruire qualcosa. Sono due personaggi che mi hanno aperto una dimensione che non esito a definire “religiosa”, pur essendo atea, come già detto. La loro complessità ti inchioda davanti a domande fondamentali. È una vertigine e io l’ho provata da lettrice e da scrittrice. Questa vertigine è una delle esperienze più importanti che la letteratura può farci fare».
Il racconto del carcere minorile però è molto dettagliato. Difficile immaginare che non abbia fatto, in questo caso, un’indagine sul campo. È così?
«Sì. Amo uscire di casa. Non riesco a iniziare una storia senza l’incontro dei luoghi in cui voglio ambientarla. Le carceri erano una mia ossessione da tempo. A Bologna vivo vicino al penitenziario minorile maschile. Si affaccia su una piazza dove vanno a giocare i bambini, spesso ci porto anche le mie figlie. Mi ha sempre colpito il contrasto tra quel vociare felice e il muro dietro cui si nascondono storie tristi. Desideravo conoscere quel posto e sono grata a tutte le persone che mi hanno dato l’opportunità di farlo. Sono entrata in contatto con i ragazzi attraverso la letteratura, ho tenuto un laboratorio dedicato alle parole: possono essere gabbia, ma possono essere pure libertà. Le definizioni sono capaci di uccidere, non dobbiamo chiuderci in loro, ma cambiarle e cambiarci. I ragazzi che vivono lì si identificano solo come detenuti, invece sono molto altro. Sono creature in divenire, soggetti non ancora compiuti, hanno il diritto del riscatto. Le parole possono far immaginare una vita diversa; quando questo è accaduto attraverso una lettura o una poesia mi sono commossa. Un giorno ho chiesto loro di raccontarmi quali fossero le loro passioni, erano tutti spiazzati dalla domanda. Pensavano di non poter nemmeno immaginare di averne una. Invece le passioni ci permettono di ricominciare».
In Cuore Nero si sofferma sul modo di elaborare il dolore dei singoli personaggi. È un tema molto attuale, la nostra società tende a giudicare con facilità il modo in cui si vivono lutti e disgrazie, soprattutto nei casi di cronaca.
«Io detesto questo puntare il dito, questo voler mettere sempre tutto insieme per appiccare un grande fuoco. Dovremmo imparare a prenderci del tempo, a estraniarci dal rumore. Anche in questo la parola letteraria aiuta».
Dove si immagina ora Emilia?
«In montagna, a Sassaia, con Bruno. E a pensarla mi commuovo».
«NON MI SONO ISPIRATA AI CASI DI CRONACA NERA, MA ALLA LETTERATURA. SONO PARTITA DA DELITTO E CASTIGO E DA I PROMESSI SPOSI»