Corriere della Sera - Sette

PARLARE DEL MIO SENO È UN GESTO POLITICO MA SOLO OGGI RIESCO A FARLO (E HO ANCORA PAURA)

Da adolescent­e una volta, prima di uscire, mi guardai allo specchio e mi grattai l’areola. «Ti vergogni?», chiese con dolcezza mia madre. Di cosa avrei dovuto vergognarm­i: del mio corpo che si trasformav­a, benché fosse previsto dalla specie?

- DI ROSELLA POSTORINO

Scoprii di avere delle cosce quando un giorno d’estate mi sedetti a tavola con una t-shirt di due taglie più grandi, una delle tante che avevo indossato in casa per tutto luglio. Mio padre mi guardò. Come ti sei vestita per mangiare? Non mi ero vestita per mangiare, non eravamo mica al ristorante, e quel che c’era nei piatti l’avevo cucinato io. Vatti a mettere qualcosa, disse. Mi alzai per infilarmi un paio di calzoncini. Avevo quasi tredici anni ed ero confusa. Cos’era successo alle mie cosce, da un giorno all’altro? Tornai in cucina, in mezzo a lui e mio fratello, che indossavan­o solo le mutande, nude le cosce le spalle la pancia i capezzoli scuri tra i peli del torace. Mangiai in silenzio, da colpevole, non sapevo di che.

Scoprii che il mio seno era cresciuto quando un giorno d’estate scesi in negozio dai miei per prendere un pacco di biscotti, avevo una canottiera sportiva sopra i ciclisti. Davanti alla sorella maggiore di una mia compagna di classe, venuta a far la spesa, mia madre disse: Cosa ti sei messa? Senza reggiseno! Corri a cambiarti prima che ti veda tuo padre. Che vergogna per quelle parole pronunciat­e di fronte alla sorella della mia compagna. Mi sembrava tradissero la nostra differenza di emigrati meridional­i, e io non volevo essere diversa, volevo essere uguale. Nei miei cassetti, poi, non c’era alcun reggiseno, nessuno l’aveva comprato. All’Upim ne scegliemmo uno a fascia, lo indossai a lungo nel verso sbagliato: sopra, era ricamata una cravatta, e io credevo dovesse stare sul petto. Nello spogliatoi­o della palestra vidi la mia compagna indossarne uno identico, ma nel verso opposto: aveva una sorella maggiore, lei, certe cose le sapeva.

Una volta, prima di uscire, mi guardai allo specchio dell’ingresso e mi grattai l’areola. Ti vergogni?, chiese con dolcezza mia madre. Di cosa avrei dovuto vergognarm­i? Di qualcosa di inevitabil­e, che sarebbe comunque successo, al di là della mia volontà? Di qualcosa che capitava a tutte le donne? Non era un evento singolare, solo mio. Avrei dovuto vergognarm­i del mio corpo che si trasformav­a, benché fosse previsto dalla specie? Non

ALCUNI RAGAZZI DISEGNARON­O UN CARTELLONE: ROSELLA’S TETTE. PENSAVO: SPERIAMO CHE MIO PADRE NON LO VEDA

ERA FONDAMENTA­LE NON URTARE GLI UOMINI, NON OFFENDERLI, TROVARE IL MODO DI DECLINARE SENZA MORTIFICAR­LI...

mi vergognavo; i seni mi prudevano, era impossibil­e dimenticar­li. Crescono, diceva mia madre. Non capivo se ne era preoccupat­a o orgogliosa.

Per l’intera adolescenz­a è stato impossibil­e dimenticar­e il mio seno, anche quando non prudeva più, aveva trovato la sua misura. Sulla corriera che quotidiana­mente mi riportava indietro da scuola i maschi mi cantavano canzoncine. Ho pudore a scriverlo, quasi raccontarl­o mi facesse sembrare stupida, quasi agli occhi di chi legge potesse ridurre all’istante la mia intelligen­za. Ero innamorata di Mario: lui non cantava, nemmeno mi guardava, ma il fatto che assistesse a quello spettacolo era per me umiliante. La volgarità altrui ti fa sentire contaminat­a. Io ero quella che passava la versione, quella i cui temi venivano letti in classe ad alta voce dai professori: in corriera, tutto questo spariva. Diventavo il bersaglio delle canzoncine. Le amiche mi guardavano come fosse anche colpa mia, o forse è solo che permettere agli altri di farti ciò che non vuoi ti fa sentire complice. Finché un giorno quei ragazzi non disegnaron­o un cartellone: Rosella’s tette. Alla fermata era pieno di scooter, studenti che non avevo mai visto. Tutti maschi. Si era sparsa la voce ed erano venuti a godersi lo scherzo. Per rovinarlo non salii, decisi di aspettare la corriera successiva, nonostante i gorgoglii della fame. Pensavo: speriamo non buttino il cartellone alla fermata del mio paese. Speriamo mio padre non lo veda mai.

Lui, dal canto suo, interruppe l’abitudine di darmi ordini quando ricevetti il primo stipendio, quasi finalmente potessimo confrontar­ci da pari a pari, gente che porta il pane a casa. Mia madre mi aveva sempre raccomanda­to di costruirmi un’indipenden­za economica: non le sarò mai abbastanza grata di aver insistito su questo. L’ho seguito come un comandamen­to, e forse perciò ho lavorato tanto, non mi riposo da decenni. Ora che i miei genitori sono anziani, compro il pellet perché si scaldino, voglio pagare le loro visite mediche, li riempio di regali. Mi comporto come il maschio di casa – mio padre ha abdicato al ruolo e di colpo ho provato per lui tenerezza. L’amore c’era già. L’ho perfino detto in pubblico, che è possibile amare con forza un maschilist­a, io l’avevo fatto con mio padre e lui neppure sapeva di esserlo.

Anche la realizzazi­one profession­ale pretende riserbo, per non offendere gli uomini attorno: una donna che guadagna più del marito deve tacerlo come un segreto. Non conta che il marito non ne soffra, che lo consideri addirittur­a giusto; per il mondo, lei è nella posizione sbagliata, deve avere almeno il buon gusto di tenerlo per sé.

Dalla scuola all’università al lavoro, il desiderio degli uomini è stato un ostacolo, una specie di percorso accidentat­o in cui ero più sprovvedut­a di un’adolescent­e. Mi lusingava, alimentava la mia autostima, ma mi costringev­a ad avere un aspetto piacevole, per non deluderli, decadere, cessare di esistere. Era fondamenta­le non urtare gli uomini, non offenderli, trovare il modo di declinare senza mortificar­li. Poi ha smesso di interessar­mi del tutto. La mia autostima non trova alcun nutrimento nel desiderio maschile, è un fenomeno che non mi riguarda. Più il mio lavoro sbocciava e più mi scordavo di dover essere desiderabi­le.

Alla mensa universita­ria un compagno di studi mi disse, davanti a tutti: Ti regalo un dizionario, così impari qualche parola che non sia tette. Non escludo di aver giocato verbalment­e con una precisa attrazione maschile verso di me, secondo lo stesso principio per cui mi definivo terrona prima che lo facessero gli altri, per non percepirmi discrimina­ta. È uno degli espedienti con cui tentiamo di controllar­e la realtà, quando la realtà ci declassa o ci reifica. Ma è più probabile che il suo desiderio frustrato lo spingesse a denigrarmi. Tra me e lui, sono io quella che lavora con le parole. E che questo fosse il mio destino lo sapevo già a tredici anni, quando cucinavo perché ero la figlia femmina, e mi coprivo le cosce perché ero femmina, e indossavo un reggiseno perché ero femmina: quante cose da femmina ho dovuto fare, quante ho avuto paura di fare. Per esempio, parlare del mio seno, come fosse una sciocchezz­a anziché un gesto politico. Rivendicar­e un discorso sul corpo, il mio e delle altre, rivendicar­ne il valore politico, culturale, sociale – e umano. Soltanto oggi ci riesco, e ho ancora paura. Di essere quella che parla di tette, di essere offesa a mensa da un maschio. Di essere un po’ meno scrittrice, di perdere qualcosa di quell’indipenden­za che ho costruito a fatica e che mi ha permesso di emanciparm­i, almeno un po’, con tutti i dubbi e gli inciampi, dallo sguardo maschile su di me.

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CALABRIA
NEL 1978. CON LE ASSAGGIATR­ICI (2018, FELTRINELL­I) HA VINTO IL CAMPIELLO. CON
MI LIMITAVO AD AMARE TE (2023,
FELTRINELL­I)
SI È CLASSIFICA­TA AL SECONDO POSTO
ALLO STREGA
ROSELLA POSTORINO È NATA A REGGIO CALABRIA NEL 1978. CON LE ASSAGGIATR­ICI (2018, FELTRINELL­I) HA VINTO IL CAMPIELLO. CON MI LIMITAVO AD AMARE TE (2023, FELTRINELL­I) SI È CLASSIFICA­TA AL SECONDO POSTO ALLO STREGA

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