NON RASSEGNARSI ALLA GUERRA UNA CURA È POSSIBILE
La videocamera della Reuters riprende i corridoi di fango che separano le tende ammassate al valico di Rafah, a ridosso dell’enorme cancello sprangato tra Gaza e l’Egitto. L’occhio piazzato su un tetto dall’agenzia britannica guarda giù oscillando piano. Mostra un paesaggio fatto di bambini, alcuni proprio minuscoli, sparpagliati e colorati contro lo sterrato. E di donne velate che un po’ li accudiscono, un po’ cucinano, stendono il bucato, si guardano intorno immaginando come organizzare un’altra giornata di sconforto in questa ultima striscia della Striscia, dove si sono rifugiate quasi due milioni di persone premute verso Sud dall’invasione dell’esercito israeliano a caccia dei capi di Hamas. Si distingue una piccola folla attorno a un forno su rotelle che distribuisce pane; sui lati di una delle tende più grandi è stato invece agganciato un pannello solare, anche se sono settimane che piove.
Muovendosi ora indietro – una quarantina di chilometri a nord e riavvolgendo il nastro di oltre quattro mesi ormai – si approda dall’altra parte di Gaza, al valico di Erez, in Israele. Le precipitazioni di questo anomalo inverno levantino 2024 hanno rivestito di verde smeraldo la radura secca dove all’alba del 7 ottobre, quando è partita la mattanza, qui, a Re’im, si stava svolgendo il SuperNova Music Festival. Dal confine risuonano forti le esplosioni dell’artiglieria, la guerra che continua, ma da questa parte c’è solo silenzio. Sparsi ovunque, a bucare il prato, gli anemoni rossi fioriti in febbraio e le immagini dei caduti. Fotografie, qualche poster: centinaia, tra nastri e candele e cuori incerti disegnati a mano, là dove sono stati trovati i corpi, a volte uno sopra l’altro, tanto che la stele arborea dedicata a ciascuno e ciascuna si arrampica salendo con quella accanto, come a tenersi su insieme. Sotto la polaroid di una ragazza uccisa resta il suo motto: «No time for drama».
Ai lati dei killing fields dove la memoria ora è natura, nelle campagne che in questa stagione sono di una bellezza insensata, si allunga il serpente nero delle casette familiari bruciate dai terroristi dentro ai kibbutz. Il profilo cupo dei roghi segna i pochi muri ancora in piedi, barcollanti ubriachi di dolore in mezzo al vuoto che continua a traboccare devastazione e abbandono. Le sedie rovesciate, i divanetti squarciati sotto le verande, i ventilatori che girano nelle serre, i recinti degli animali spalancati e deserti.
Thomas Friedman, la firma più appassionata e lucida in questa crisi, ha scritto sul New York Times un editoriale che ci ha fatto – e ci fa, ancora – sperare che le metastasi di quanto è accaduto e sta accadendo possano essere fermate. Una cura esiste, e noi – Stati, unioni e cittadini semplici – abbiamo il dovere di crederci, di conoscerla e contribuirvi con ogni mezzo e pensiero. Friedman la definisce «l’audace dottrina Biden», che solo il presidente democratico potrà sostenere non “a dispetto” bensì “grazie” alla sua età ed esperienza. La strategia americana, che coinvolge una rete di governi mediorientali senza i quali tutto sarebbe inutile, prevede tre linee di intervento. Tre linee che corrono parallele e si intrecciano in quello che sarebbe un miracolo di diplomazia, ancora più potente dei negoziati a Camp David alla fine degli anni Settanta.
Eccole. 1) Rispondere in blocco e con fermezza a ogni attacco mosso da Teheran attraverso i suoi tentacoli armati nell’area (Hamas, Hezbollah, Houthi, le milizie sciite in Iraq). 2) Sostenere il riconoscimento di uno Stato palestinese, che includa Gaza e Cisgiordania, una volta accolta e sigillata la rinuncia a ogni minaccia allo Stato ebraico. 3) Stringere un patto per la sicurezza regionale che faccia leva sull’Arabia Saudita, a sua volta disposta ad aprirsi a relazioni formali con Israele.
Condurre in porto questo ribaltamento degli equilibri significherebbe sfilare, finalmente, il jolly palestinese dal mazzo iraniano, scoprire il bluff pervicace degli ayatollah che continuano a perseguire – in piedi sui pulpiti ma seduti in panchina – i propri obiettivi di leadership regionale. E spingere il governo israeliano a uscire dall’angolo degli estremisti, che considerano guerra e occupazione l’unica risposta praticabile, sulla pelle degli ostaggi e di decine di migliaia di civili palestinesi.