INCIAMPARE SUL TRAGUARDO DELL’AUTOREALIZZAZIONE L’INCUBO DI RE CARLO E NOI MATURI
Mutatis mutandis, la vicenda che sta vivendo Re Carlo d’Inghilterra è il mio peggiore incubo. Non nel senso della malattia, che tanto quella prima o poi la conosceremo tutti. Ma nel senso del timing.
Intendo questo: passiamo buona parte della vita in attesa del momento in cui potremo godercela davvero. Facciamo sacrifici, rinunce, ci imponiamo discipline, calpestiamo anche qualche sentimento pur di arrivare al magic moment, quando saremo finalmente noi stessi fino in fondo, e faremo ciò che più ci piace. Poi, il più delle volte, quel momento arriva e passa così velocemente che non riesci neanche ad annusare la promessa di felicità che conteneva.
Naturalmente ognuno ha il suo. Io, per esempio non ho mai sognato di diventare re, come invece penso che Carlo abbia fatto fin dalla nascita. Ma ho sognato e sogno di raggiungere quella fase della vita nella quale potrò seguire il mio demone.
La parola eudaimonia, che in greco antico stava per felicità, vuol dire proprio questo: seguire il proprio demone. Pura autorealizzazione. Non più condizionata dalle tre ossessioni che ci hanno tormentato fino a oggi: quanto ci piacciamo, quanto abbiamo, di quante relazioni godiamo.
Aneliamo tutti a raggiungere il tempo in cui si può cercare un’altra felicità: forse meno eccitante ma anche meno effimera, meno ansiogena, e soprattutto meno dipendente dal giudizio altrui. La “vita buona” di Aristotele, insomma; ma anche la vita stessa, intesa come tranquillità, pace, prolungamento dell’esistenza.
Aspetti a lungo per arrivare a questa svolta, perché è impossibile senza la maturità. È una condizione dell’età avanzata. Cesare Pavese, che voleva raggiungerla così tanto da non aver saputo sopportare l’attesa, diceva: «La maturità è anche questo: non più cercar fuori ma lasciare che parli, col suo ritmo che solo conta, la vita intima».
E poi, invece, quando la meta è lì, a un passo, finalmente ti sembra che ce l’hai fatta, e stai per cominciare a vivere il tempo della felicità, ecco che qualcosa di assolutamente prevedibile e però del tutto imprevisto giunge a impedirtelo: una malattia, un incidente, un lutto, un figlio nei guai.
Non importa quanto avanti negli anni ti succeda, ti sembrerà sempre che è troppo presto.
Penso che Carlo oggi stia vivendo questa stessa angoscia: ma proprio adesso doveva capitarmi? Proprio adesso, dopo tanti tormenti, dolori, problemi? Proprio adesso che potevo cercare me stesso perdendomi nel servizio agli altri? Proprio adesso che potevo finalmente mettermi a cercare la felicità?
È la condanna dell’homo sapiens: avere nostalgia dell’infinito. Perché siamo gli unici esseri viventi consapevoli della propria finitezza. «L’idea di una fine eterna, sparire per sempre, è insostenibile per la mente umana», diceva un ateo come Dario Fo. Proprio per questo abbiamo bisogno di quel corso di preparazione alla saggezza e alla virtù che è una lunga vecchiaia felice. Speriamo che ci sia concessa.
ANELIAMO A QUELLA META DI QUIETA FELICITÀ. MA ECCO CHE QUALCOSA DI PREVEDIBILE (E PERÒ DEL TUTTO IMPREVISTO) CE LA NEGA