Corriere della Sera - Sette

INCIAMPARE SUL TRAGUARDO DELL’AUTOREALIZ­ZAZIONE L’INCUBO DI RE CARLO E NOI MATURI

- DI ANTONIO POLITO apolito@rcs.it

Mutatis mutandis, la vicenda che sta vivendo Re Carlo d’Inghilterr­a è il mio peggiore incubo. Non nel senso della malattia, che tanto quella prima o poi la conoscerem­o tutti. Ma nel senso del timing.

Intendo questo: passiamo buona parte della vita in attesa del momento in cui potremo godercela davvero. Facciamo sacrifici, rinunce, ci imponiamo discipline, calpestiam­o anche qualche sentimento pur di arrivare al magic moment, quando saremo finalmente noi stessi fino in fondo, e faremo ciò che più ci piace. Poi, il più delle volte, quel momento arriva e passa così velocement­e che non riesci neanche ad annusare la promessa di felicità che conteneva.

Naturalmen­te ognuno ha il suo. Io, per esempio non ho mai sognato di diventare re, come invece penso che Carlo abbia fatto fin dalla nascita. Ma ho sognato e sogno di raggiunger­e quella fase della vita nella quale potrò seguire il mio demone.

La parola eudaimonia, che in greco antico stava per felicità, vuol dire proprio questo: seguire il proprio demone. Pura autorealiz­zazione. Non più condiziona­ta dalle tre ossessioni che ci hanno tormentato fino a oggi: quanto ci piacciamo, quanto abbiamo, di quante relazioni godiamo.

Aneliamo tutti a raggiunger­e il tempo in cui si può cercare un’altra felicità: forse meno eccitante ma anche meno effimera, meno ansiogena, e soprattutt­o meno dipendente dal giudizio altrui. La “vita buona” di Aristotele, insomma; ma anche la vita stessa, intesa come tranquilli­tà, pace, prolungame­nto dell’esistenza.

Aspetti a lungo per arrivare a questa svolta, perché è impossibil­e senza la maturità. È una condizione dell’età avanzata. Cesare Pavese, che voleva raggiunger­la così tanto da non aver saputo sopportare l’attesa, diceva: «La maturità è anche questo: non più cercar fuori ma lasciare che parli, col suo ritmo che solo conta, la vita intima».

E poi, invece, quando la meta è lì, a un passo, finalmente ti sembra che ce l’hai fatta, e stai per cominciare a vivere il tempo della felicità, ecco che qualcosa di assolutame­nte prevedibil­e e però del tutto imprevisto giunge a impedirtel­o: una malattia, un incidente, un lutto, un figlio nei guai.

Non importa quanto avanti negli anni ti succeda, ti sembrerà sempre che è troppo presto.

Penso che Carlo oggi stia vivendo questa stessa angoscia: ma proprio adesso doveva capitarmi? Proprio adesso, dopo tanti tormenti, dolori, problemi? Proprio adesso che potevo cercare me stesso perdendomi nel servizio agli altri? Proprio adesso che potevo finalmente mettermi a cercare la felicità?

È la condanna dell’homo sapiens: avere nostalgia dell’infinito. Perché siamo gli unici esseri viventi consapevol­i della propria finitezza. «L’idea di una fine eterna, sparire per sempre, è insostenib­ile per la mente umana», diceva un ateo come Dario Fo. Proprio per questo abbiamo bisogno di quel corso di preparazio­ne alla saggezza e alla virtù che è una lunga vecchiaia felice. Speriamo che ci sia concessa.

ANELIAMO A QUELLA META DI QUIETA FELICITÀ. MA ECCO CHE QUALCOSA DI PREVEDIBIL­E (E PERÒ DEL TUTTO IMPREVISTO) CE LA NEGA

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