LEZIONI DI SICUREZZA: SE C’È TEMPESTA AGGRAPPARCI A UNA BOA NON CI SALVERÀ
Io vinco, tu vinci. Ci sono situazioni così, dove tutti possono uscirne bene. Può essere l’effetto di un matrimonio che funziona, di un accordo commerciale che allinea domanda e offerta, di un’intesa che scongiura la guerra. Gli inglesi hanno creato un’espressione che stringe il senso di questa combinazione senza sconfitti, scontenti, danneggiati: sono passaggi “win-win”, epifanie nelle vite pubbliche e private, manifestazioni rare di divinità benevole. Abbiamo fatto nostra l’espressione anglosassone, fatichiamo però a trovare una traduzione efficace in italiano. Forse perché stentiamo a crederci. A credere che, alla fine del giorno, non debba essere tutto interpretato in termini di vincitori e vinti.
Ma esistono situazioni “lose-lose”, dove si finisce per precipitare insieme, in ogni direzione, follemente? E perché, quando riconosciamo gli allarmi di un deragliamento collettivo, non ci fermiamo prima?
Il Rapporto 2024, pubblicato dalla Conferenza di Monaco sulla Sicurezza dopo un percorso di raccolta dati e di analisi esclusive tra specialisti internazionali, si intitola proprio Lose-lose?, con un’ultima speranza aggrappata al punto interrogativo. Approdati al 60° anniversario della conferenza e al decimo rapporto preparatorio, il dubbio degli osservatori è che «sfortunatamente» una tendenza negativa – una freccia che punta giù, una spirale discendente – stia percorrendo il mondo. «Tensioni geopolitiche in aumento» e «incertezza economica» sono i segni globali del nostro tempo. La maggioranza degli intervistati nei Paesi appartenenti al G7 (il gruppo che riunisce Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Usa, cioè le economie considerate più avanzate, allargate all’intero sistema Ue) pensa che da qui al 2034 le cose andranno peggio. Ci saranno – prevediamo quasi tutti – «più minacce» e «meno ricchezza».
La reazione dei governi alla percezione di fatica, debolezza e paura diffuse è di chiusura. La tentazione è muoversi in fretta a protezione delle vulnerabilità nazionali, scansando i richiami alla cooperazione e gli impegni già sottoscritti alla condivisione del pericolo, in nome di soluzioni più solide ma mediate. Poco adatte, quindi, a catturare consenso nelle stagioni elettorali. Sono politiche definite di“de-risking”, di riduzione dei rischi. Calcolati, incalcolabili. Un po’ come quando rispondiamo al dolore piegandoci in posizione fetale, aspettando che passi.
Il punto di caduta di questa strategia centrifuga è che siamo – ormai e per fortuna – parte di sistemi interdipendenti, capaci di riconoscersi in uno specchio di valori universali (quelli essenziali tracciati nella Dichiarazione dei diritti umani) e di regole del gioco (fondate sul principio della reciprocità per cui non si vince soli, non si vince contro). Certo, ci sentiamo orfani di quell’illusione transatlantica di fine Novecento, secondo la quale eravamo destinati a sorseggiare – in pace, all’infinito – un cocktail rafforzato di diritti, prosperità, progresso. Dobbiamo invece ricominciare. E tocca soprattutto a noi, noi che nell’89 eravamo giovani. E ci sentivamo fortissimi, fortunati. Credevamo di avere il peggio alle spalle, l’atomica e il filo spinato.
Dovremo ora fare i conti con i cocci di un ordine mondiale esaurito, con la rilettura feroce – economica e culturale – dell’eredità coloniale che sale dalle nostre università, con il Sud globale crescente e calamitato nel girone delle autocrazie. Disunirci, tra alleati liberaldemocratici e vicini di casa occidentali, ci spingerà ad abbracciare la boa della somma zero, con lo sguardo basso, fisso ai «vantaggi relativi». In mezzo alla tempesta.
GLI ESPERTI DELLA CONFERENZA DI MONACO DESCRIVONO UNO SCENARIO IN CUI TUTTI, A CACCIA DI “VANTAGGI RELATIVI”, FINISCONO PER PERDERE