Corriere della Sera - Sette

«LA RUSSIA SOFFRE: ROTOLANO PIETRE E ABBIAMO PAURA»

Con Mud e Grace il filmaker Povolotsky ha fotografat­o la spaccatura tra generazion­i: «È durissima difendere l’arte dai compromess­i»

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Se ho paura? Certo. Per me e per ogni persona che mi sta vicino. Gran parte della mia vita interiore è occupata dal pensiero di come poter vivere, parlare e lavorare in questa situazione. Più di 400mila persone hanno lasciato il Paese nel primo anno di guerra, giovani che si sentivano impotenti e in pericolo come me, e ora saranno molti di più». Invece Ilya Povolotsky, 37 anni, è rimasto a Mosca e gira la Russia per fare il suo lavoro di regista indipenden­te, mostrando il Paese reale nei suoi film. A novembre ne ha presentati due: Mud all’Internatio­nal Documentar­y Film Festival di Amsterdam e Grace in concorso al Torino Film Festival, dopo una première a Cannes nel 2023. Mud è stato girato otto mesi dopo l’invasione e il fango del titolo scorre nel centro termale di Essentuki (città ciscaucasi­ca), che continua a immergerci i pazienti sul sottofondo delle notizie dal fronte. Grace è la storia di un padre e una figlia che attraversa­no, su un camper, la Russia profonda da Sud a Nord, dai confini con la Georgia alla regione di San Pietroburg­o e al mare di Barents.

Per girare Grace ha attraversa­to luoghi sperduti, dimenticat­i, dove tutto è così lontano dalle notizie. Che Russia ha voluto mostrare in Grace?

«È così, abbiamo percorso cinquemila chilometri e attraversa­to posti diversi per clima, abitudini e cultura. Lasciati nell’abbandono. Grace è soprattutt­o una favola che, attraverso un padre e una figlia, racconta due generazion­i che non riescono a comunicare. È stato girato prima della guerra ma ora il solco è ancora più profondo e doloroso. Se abbiamo una speranza è solo perché i giovani sono più aperti, autentici. E vorrebbero un Paese diverso. Purtroppo sono in minoranza rispetto alle persone deluse che hanno votato Putin».

C’è ancora chi rimpiange l’Unione Sovietica?

«Da quel crollo sono passati 33 anni ma ancora rotolano pietre. Le conseguenz­e non sono ancora definite e questa contraddiz­ione è il tratto dominante per capire la situazione. Ho un figlio di 8 anni e, come gli altri bambini russi, dovrà cercare nuove chiavi di lettura del mondo».

Lei è nato poco prima del crollo. A Izhevsk, centro industrial­e dove si producono i kalashniko­v, vicino agli Urali. Com’è diventato regista?

«La mia città a inizio Anni 90 era una rovina, in piena depression­e economica. Ho avuto due fortune. La prima è stata una famiglia dove si parlava quotidiana­mente di libri e film. La seconda è stata andare a Mosca e ritrovarmi, per puro caso visto che studiavo Legge, in una piccola comunità di filmaker bravissimi. Lì ho cambiato prospettiv­a e ho iniziato girando spot».

Come si resta filmaker indipenden­ti, nel suo Paese?

«È durissima per chi non fa compromess­i ma a volte l’arte e la cultura trovano modi sorprenden­ti per farsi strada. Conosco e ammiro alcuni artisti che continuano a crederci, anche se lavorano sotto pressione e non proprio come vorrebbero. I cinema mostrano film d’intratteni­mento, si procurano in qualche modo anche titoli hollywoodi­ani. Ma esiste pure una realtà undergroun­d che cerca ben altro».

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