«HO DATO VOCE A BOB MARLEY E HO CAPITO CHI ERA»
Da dove vuoi cominciare?». «Dal principio», risponde Bob Marley. Sul grande schermo, il film Bob Marley: One love di Reinaldo Marcus Green, da ieri nei cinema, ci fa riscoprire la carriera di una superstar – anzi, di un mito: «Non sono una superstar». Scorrono tutte le scene della sua storia intima e collettiva, in 103 minuti. Bob Marley che canta davanti al fuoco Redemption Song e Alpharita Constantia Anderson – Rita – gli domanda sorpresa: «Quando hai scritto questo?». Bob Marley che subisce l’attentato. Bob Marley che si ostina a volere il concerto per la pace. Bob Marley che scopre di avere un melanoma. Dietro il messia del reggae (copyright Ettore Mo nelle pagine a seguire) c’è Alberto Boubakar Malanchino. Dopo aver indossato il camice del dottor Gabriel Kidane in Doc - Nelle tue mani, l’attore presta la sua voce al protagonista-leggenda giamaicano interpretato da Kingsley-Ben Adir. «Un progetto complesso», dice subito e lo ripete almeno due volte Malanchino. Anche per lui che nel 2023 si è aggiudicato il premio Ubu come miglior performer under 35 dell’anno con il monologo Sid - Fin qui tutto bene.
Quando gli chiediamo come si è preparato al ruolo, chiarisce: «La differenza sostanziale che c’è tra il doppiaggio e il set o il teatro è che al doppiaggio non ci si può preparare, è un tipo di lavoro che viene fatto sul momento, direttamente in sala, insieme alla direttrice di doppiaggio. Siamo stati accompagnati da un rastafariano, una grandissima persona. Ci ha fatto capire sempre più a fondo quelle che erano le dinamiche della famiglia Marley o ciò che stava avvenendo nella storia da un punto di vista biografico». La scena più difficile? «Sono state talmente tante… sicuramente è stato complesso riuscire a ridare una complessità umana al protagonista, nel senso che si ha una concezione molto stereotipata della figura di Bob Marley e del mondo che lo circonda.
C’è una mitizzazione del personaggio».
A cosa si riferisce?
«Il percorso di Bob Marley non è stato in solitaria, né in solitudine. La costruzione di un mito non parte solamente dal personaggio stesso, ma dagli uomini e dalle donne che stanno dietro di lui e soprattutto a fianco a lui, come Rita, sua compagna e corista principale».
Quindi?
«Come fai in un film a restituire l’essere umano che sta dietro la leggenda? È veramente un’impresa non da poco: tutte le persone con cui ho interagito hanno avuto, chi più chi meno, in qualche modo, un’esperienza con Bob Marley: parliamo di un’icona musicale e storica che coinvolge molte generazioni».
Qual è stata invece la sua di esperienza?
«Mio padre mi faceva addormentare sulle canzoni di Bob Marley quando ero appena nato. Per diverso tempo, alle superiori, ho suonato il basso elettrico. In quel momento ho iniziato ad ascoltare la sua musica: Three Little Birds, No Woman No Cry, Redemption Song».
A quale brano è più legato?
«Redemption Song è una canzone molto bella: parla di orgoglio, riscatto, ma soprattutto di amore».
Lei un riscatto lo ha avuto?
«Ognuno ha il suo riscatto personale. Sono molto contento del percorso che sto facendo. Cerco di tenere la barra sempre dritta. Trovare la vocazione a 18 anni e avere la possibilità di fare un personaggio di questo tipo a 31 mi rende orgoglioso». Quando ha detto: voglio fare l’attore?
«In quinta superiore. Una professoressa di ragioneria ci portò a vedere uno spettacolo a Milano e in quel momento mentre tanti stavano pensando di andare all’università io mi sono innamorato di questo lavoro. Lì ho cominciato a studiare».
Nel suo monologo che sta portando a teatro, Sid, il protagonista si domanda che volto abbia Dio. Posso chiederle che rapporto ha con la fede?
«Questa è una domanda un po’ personale, preferisco non rispondere».
Le nuove generazioni sono più tolleranti sul tema dell’integrazione?
«Mah (pausa), direi che le nuove generazioni sono più propense all’inclusività». Inclusività?
«L’integrazione in qualche modo vuol dire che c’è un gruppo di persone che dall’esterno entrano in un gruppo e vengono accettate. Con l’inclusività invece si trasmette più l’idea che le persone che costituiscono una società hanno la possibilità di essere membri attivi».
In sostanza?
«Sicuramente oggi c’è una spinta che parte dal basso, dalle nuove generazioni. Anche se la situazione è estremamente complicata. Ci sono generazioni che non hanno vissuto l’immigrazione o l’hanno vissuta in una forma molto esigua, e altre che si ritrovano invece la diversità in classe, per esempio. Questa eterogeneità rende unica la nostra società».
Il cinema è aperto a nuovi modelli?
«I modelli nuovi ci sono, potrebbero essere amplificati ancora di più. È ancora difficile, in Italia, oggi, nel 2024 riuscire a discostarsi da pregiudizi e stereotipi che si manifestano anche nel mondo artistico». Cosa deve cambiare?
«I piani produttivi e autoriali dovrebbero iniziare a sdoganare un certo tipo di storie. Bisognerebbe smarcarsi sempre di più da un certo tipo di narrazione, molto univoca. Tanti ragazzi e ragazze che conosco sono di origine asiatica, nati e cresciu
«LE NUOVE GENERAZIONI SONO PIÙ INCLUSIVE CON CHI HA ORIGINI NON ITALIANE. NON SIGNIFICA “ACCETTARCI” MA CONSIDERARCI SOGGETTI ATTIVI»
ti in Italia, e sono avvocati, panettieri. In questo momento vedo che ancora è molto timida la voglia di raccontare questi modelli».
Perché secondo lei?
«È come se ci fosse sempre la percezione di dover giustificare la presenza di una diversità all’interno di una storia mentre spesso basta uscire di casa e guardarsi attorno: la diversità non ha bisogno di essere giustificata, bisogna solamente viverla e condividerla».
L’Italia è un Paese razzista?
«Potrei dire che il mondo ha tanti problemi dal punto di vista razziale, non è solamente l’Italia ad averne (pausa). È una domanda a bruciapelo che rischia di produrre una risposta molto sterile».
Cosa intende?
«Il razzismo è una componente dell’essere umano che esiste, bisogna individuarlo e riuscire a farci i conti, cercare di uscire da alcuni preconcetti e pregiudizi. Gli esseri umani hanno paura della diversità ma in tutte le sue sfaccettature: il bambino piccolo ha paura del buio; se tu non conosci chi sta dall’altra parte della riva del fiume, come fai a elevarti mentalmente e spiritualmente? Se non conosci, non sai. In questo senso, creare forme nuove di narrazione potrebbe essere un modo molto interessante per abbattere certe barriere».
Padre italiano. Madre burkinabè. Lei è nato a Cernusco sul Naviglio. Come ha vissuto quel pregiudizio di cui parla?
«Io a una certa età ho iniziato a rendermi conto che la società non mi vedeva come un ragazzo italiano ma come un ragazzo semplicemente dalla pelle nera. C’erano delle situazioni in cui veniva messa in dubbio la mia identità e la mia appartenenza. Sono nato nel 1992, in quell’anno nella provincia di Milano coppie miste non ce n’erano proprio, si faceva fatica a incasellarle».
Quanto è stato difficile?
«Ci sono stati momenti di crisi. Il problema generale della società è che il colore della pelle viene visto come una carta d’identità sui fronti sociale, economico, religioso e culturale. E questo innesca tanti pregiudizi. Poi ci sono persone che cambiano idea, e altre che continuano a perseverare in quei pensieri. Adesso farò una provocazione alla sua categoria». Prego, prego.
«Una volta su tre i giornalisti dicono che vengo dal Burkina Faso. In altri articoli c’è scritto che sono nato a Cernusco sul Naviglio con madre dal Burkina Faso. Lì l’accento dove lo vuoi mettere? Sto facendo una riflessione provocatoria…».
Ma andiamo oltre i cliché. Cosa le è rimasto impresso di bello del Burkina Faso?
«La mia parte burkinabè: quella è sicuramente una delle sue bellezze e una delle sue meraviglie. Sono andato l’ultima volta nel 2018, lo avevo fatto in preparazione di un monologo che ho poi portato al teatro Franco Parenti: Verso Sankara. Parlava della storia di Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso dal 1983 al 1987, poi trucidato. È stato un grandissimo rivoluzionario, si è schierato con i popoli oppressi».
Di quel viaggio cosa ricorda?
«Io e Maurizio Schmidt, mio insegnante alla Scuola Paolo Grassi e autore del monologo, ci siamo presi un mese di tempo per andare in Burkina. Mancavo da diversi anni e ho avuto la possibilità di ritornare nella terra della mia famiglia, sia per riscoprire i rapporti e le relazioni che erano rimasti congelati, sia per poter parlare e intervistare dei parenti di Sankara. Quel viaggio mi ha restituito una concezione più matura e profonda del Paese».
Ancora oggi resta radicato lo stereotipo: Africa come un Paese unico…
«Assolutamente vero, non dimentichiamoci che l’Africa è stata divisa con il righello dalla società occidentale, ma all’interno dell’Africa ci sono tante etnie che coesistono da diverso tempo, che magari non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra, hanno identità differenti. Ho riscoperto una bellezza estetica ma anche umana e personale che ha a che fare con la mia famiglia. Però il Burkina Faso mi ha trasmesso anche la crudezza della geopolitica che riguarda quei mondi».
Cosa ha imparato dai suoi genitori?
«Burkina Faso vuol dire terra degli uomini integri. Da mio padre e da mia madre ho imparato l’integrità, la grande dedizione al lavoro, la ricerca approfondita di sé stessi. E ho imparato che i beni materiali non sono le uniche cose che contano nella vita».
«IL RAZZISMO FA PARTE DELL’ESSERE UMANO, NASCE DALLA PAURA DELLA DIVERSITÀ. CREARE NUOVE FORME DI NARRAZIONE AIUTA A CAMBIARE»