Corriere della Sera - Sette

«MI DISSERO DI CANTARE LE DISGRAZIE E FUNZIONÒ... QUANDO NAPOLI SI BLOCCÒ PER ME MIO PADRE CHIESE: MA TU CHI SEI?»

- DI TERESA CIABATTI

Negli anni lui si è preso gli schiaffi e io ora mi godo le carezze. Il vero eroe del mio successo è lui», dice Nino D’Angelo riferendos­i al ragazzo dal caschetto biondo. Al sé stesso ventenne che ha patito il disconosci­mento della sua città — «della borghesia, mai del popolo» precisa.

Il concerto del 29 giugno allo stadio Maradona (I miei meraviglio­si anni 80… e non solo!) è un omaggio proprio al ragazzo che è stato. È lui che Nino D’Angelo farà rivivere attraverso le canzoni più famose — da ‘A discoteca a Maledetto treno.

Perché Nino D’Angelo icona, considerat­o il capostipit­e del neomelodic­o (a torto, secondo lui), in principio ha dovuto faticare, affrontand­o snobismo e discrimina­zione. Ricorda bene il direttore del giornale locale che lo liquidò: «Caro D’Angelo, fenomeni come lei possono diventare pericolosi e bisognereb­be reprimerli». In quegli anni il cantante non trova spazi a Napoli dove esibirsi. «Ero un caso di razzismo musicale» racconta (lo stesso subito da Geolier a Sanremo?).

Per fortuna che arriva Goffredo Fofi a dire che Nino D’Angelo non è un semplice cantante ma «la vera voce del sottoprole­tariato napoletano».

Il 29 giugno perciò torna la voce del sottoprole­tario, e Napoli festeggia, perché lui, il ragazzo dal caschetto biondo raffigurat­o da Jorit in un murale, rappresent­a il carattere di un intero popolo che, nonostante le difficoltà, mai soccombe. Sopporta,

vince.

L’infanzia di Nino D’Angelo?

«Papà scarparo, mamma casalinga, sei figli di cui io il maggiore. Quando c’è la crisi della scarpe, mio padre va a lavorare a Bergamo. Ci diceva che faceva lo scarparo, in verità faceva il muratore, ma si vergognava a dirlo. Noi lo abbiamo scoperto dopo. Tornato a casa per Natale non lo abbiamo fatto ripartire. Usciva la mattina e si metteva a cercare lavoro. Io l’ho scritto pure in un tema: “Il lavoro di mio padre è andare a cercare lavoro”. Avevo 7 anni». La musica nella sua vita?

«Gianni Morandi, Rita Pavone a casa mia erano cantanti stranieri. Noi sentivamo solo musica napoletana».

Un limite?

«Al contrario: i professori di scuola venuti a sapere di questo ragazzo primitivo che cantava canzoni antiche, mi facevano cantare al posto d’interrogar­mi. Successe anche all’esame di terza media, non sapevo niente, il professore mi chiede di cantare La Marsiglies­e. Promosso».

A casa?

«Mio padre non credeva che cantare potesse essere un lavoro, lo vedeva come uno svago. Quando ai matrimoni dei parenti mi facevano salire sulla sedia per esibirmi, e la gente applaudiva, lui non dava peso alla cosa».

Canzoni di quel periodo?

«Carmela, e altre di Sergio Bruni».

La carriera di Nino D’Angelo?

«Ho iniziato come posteggiat­ore, cantavo per i turisti. Poi sono diventato cantante di matrimoni. Ne facevo tanti. Entrai bene nel giro grazie ai consigli di un impresario».

Ovvero?

«Questo impresario mi dice che io ho un problema: il fisico. Siccome non sono bello, dice, devo puntare tutto sullo stomaco, nelle canzoni devo mettere le disgrazie: una volta muore la madre, l’altra il padre, l’altra ancora il fratello. Se inserisco nel repertorio questo tipo di canzoni lui garantisce di farmi lavorare».

Lei?

«Le metto, e lavoro tantissimo».

Un matrimonio che ricorda?

«Ristorante a Lago Patria, io comincio a cantare Mamma perdonami, senonché il compare di nozze mi dice di smettere, quella canzone è fuori luogo in quanto la sposa è incinta e la mamma, appreso del guaio, non si è presentata al matrimonio. Al microfono mi scuso e cambio canzone: Hanno acciso a papà. Il compare torna da me: “Allora lo fai apposta” dice. E mi spiega che proprio il giorno prima il padre

dello sposo è stato investito da un camion e adesso versa in gravissime condizioni in ospedale».

Negli stessi anni lavora alla stazione?

«Non riuscendo a mantenere me e la mia famiglia solo coi matrimoni mi trovo un secondo lavoro: gelataio ai treni della ferrovia di Napoli. Sul carrettino dei gelati cantavo canzoni strappalac­rime».

E?

«Da un treno scende Alberto Lupo che vede questo ragazzino piccolo dalla voce potente e s’intenerisc­e. Mi porta in un negozio di abbigliame­nto, mi regala un cappotto per ripararmi dal freddo, io non avevo cappotto. Era inverno».

Poi?

«Mi dà il recapito di un agente di spettacolo che organizza festival canori, scrivendom­i un biglietto di presentazi­one».

Il momento in cui la musica diventa l’unico lavoro?

«Con le sceneggiat­e».

Un ricordo in particolar­e?

«Durante il terremoto dell’80 tutti i teatri chiudono. Noi no, noi andiamo a lavorare lo stesso. La sceneggiat­a era A partorient­e. Ogni sera facevamo il pienone. Gli impresari non si capacitava­no: addirittur­a col terremoto la gente veniva a vedermi». Come se lo è spiegato lei?

«Voglia di vivere».

Quando suo padre capisce che la musica è la sua strada?

«Ricordo l’ultimo matrimonio a Torre del Greco, al ristorante Carmelo a mare. Io arrivo e si blocca non il ristorante, la città. Con mio padre che dice: “Ma tu chi sei?”. Lì ha cominciato a capire. Quel giorno lo avviso: “Da oggi tu sei il padre di Gaetano, non di Nino D’Angelo, ricordatel­o”».

Se lo ricorda?

«Mai. Vendeva le mie foto ai fan. Magliette, foulard, ciondoli, sciarpe. Casa mia era diventata un deposito di gadget con la mia faccia. Poi mio padre comincia a registrare le audiocasse­tte contraffat­te, le registrava a casa, davanti a me. È stato lui, mio padre, il mio primo falsario. Se gli dicevo qualcosa, lui mi rispondeva che lo faceva per il mio bene, per farmi pubblicità». Sua madre?

«Pure lei se aveva una difficoltà diceva: “Sono la mamma di Nino D’Angelo”, e risolveva».

La infastidiv­a la strumental­izzazione?

«La mia famiglia non sapeva niente. Non sapevano né leggere né scrivere».

Dal suo libro (Il poeta che non sa parlare, Baldini + Castoldi), l’aneddoto della zia e Beautiful.

«Un’amica emigrante di mia zia, tornata in Italia per le ferie, si lamenta che in Germania danno Beautiful in tedesco. Mia zia si prodiga: “Portati il mio televisore, quello parla solo in italiano, l’ho comprato a Casoria”».

Regalo ai suoi genitori coi primi guadagni?

«Mia madre era terrorizza­ta che io facessi successo e me ne andassi lasciando loro a morire di fame. Glielo dicevano un po’ tutti: “Quello se ne va”, dicevano». Invece?

«Il mio sogno era fare mia madre “padrone di casa”. Sono cresciuto con la cultura della casa, della pigione da dare al padrone. Coi soldi delle sceneggiat­e compro una casa ai miei, sempre a Casoria».

Si trasferisc­ono?

«Mai. Rimangono in quella dove siamo nati noi, l’altra l’affittano, fanno i padroni di casa».

Uscire dalla povertà la fa sentire responsabi­le dell’intera famiglia?

«Da ricco ho continuato a pensare da povero. Pensavo: se un giorno finisce».

Un giorno finisce?

«Roma, la sera ero in teatro con la sceneggiat­a, la mattina ho un malore. In ospedale mi operano ai polmoni, il medico mi fa capire che non ritornerò a cantare. Quello che ho provato in quel momento». Cosa?

«Che era tutto finito».

Quindi?

«Finito per finito mi faccio trasferire a Napoli, all’ospedale Monaldi, almeno sto vicino alla mia famiglia».

Napoli.

«Si era sparsa la voce che stavo tornando. Ricordo l’arrivo in ambulanza, la folla fuori dall’ospedale, gente normale e malati in pigiama usciti per accoglierm­i. Ho sentito tanto amore».

Non viene abbandonat­o.

«Dalla gente no, dall’ambiente sì: la compagnia teatrale con cui lavoro mi sostituisc­e, i produttori dei miei dischi vendono i diritti, nessuno mi vuole più».

A quel punto?

«In ospedale viene a trovarmi un discografi­co

«DOPO L’OPERAZIONE AI POLMONI IL MEDICO MI FECE CAPIRE CHE NON AVREI PIÙ CANTATO. SO COSA SI PROVA A PENSARE: È TUTTO FINITO»

della Vis Radio di Milano, Franco De Paolis, in compagnia di un avvocato. Io, stordito dai farmaci, sentivo i loro discorsi. Il produttore era interessat­o a me, e l’avvocato diceva: “Maestro, voi vi volete comprare un cadavere”. Ma De Paolis decide ugualmente di farmi un contratto». Dopo?

«Torno a casa, ossigeno i capelli, faccio il caschetto: è il mio passaggio dalla canzone-sceneggiat­a a quella pop napoletana. Così è nata la nuova canzone napoletana, ribattezza­ta a metà anni Novanta “neomelodic­a”».

1982: ‘Nu jeans e ‘na maglietta.

«Dischi venduti un milione, cinque milioni con le cassette contraffat­te». Contraffat­te da?

«Principalm­ente da mio padre».

Il film dalla canzone?

«Traducono il titolo in italiano: Un jeans e una maglietta».

Incassi?

«Per sessanta biglietti non sono il campione d’incassi di quell’anno».

Davanti a lei?

«Flashdance».

Delusione?

«La carriera era avviata, questo contava. Un altro successo di quegli anni era Il tempo delle mele che a me pareva uguale a Un jeans e una maglietta. Solo che Un jeans e una maglietta era più stracciato. Evidenteme­nte non sbagliavo, tanto che il produttore mi propone un film in coppia con Sophie Marceau».

Accetta?

«Non avevo tempo».

Gli incontri importanti nella vita di Nino D’Angelo?

«1987, concerto all’Olympia di Parigi, il mio impresario dice: “Se stasera facciamo il pieno puoi scegliere chi conoscere: Frank Sinatra, Charles Aznavour, Sergio Bruni, pensaci”. Io rispondo: “Non devo nemmeno pensare”».

Conseguenz­a?

«Vado a casa di Sergio Bruni con due amici. Io ero già Nino D’Angelo, caschetto biondo e tutto il resto. Sulla porta lui ci guarda e chiede: “Chi è il cantante?”».

Sua reazione?

«Ci rimango malissimo, ero convinto che mi conoscesse».

E?

«A casa di Bruni c’era il maestro che gli insegnava a parlare italiano, lui parlava solo napoletano. Quel giorno aveva appena imparato il verbo captare. Ci mettiamo a parlare, e a ogni cosa che dico io, ogni compliment­o, lui si rivolge alla moglie: “Maria, hai captato il ragazzo?”». Conclusion­e?

«Io intono Carmela, e lui dice: “Questo devi cantare tu, no ‘Nu jeans e ‘na maglietta”. Capisco quindi che mi conosceva, sulla porta aveva finto».

Motivo?

«Sergio Bruni è stato il più grande cantante napoletano, ma molto antipatico. Si rendeva antipatico. All’uscita di Tiempo mi telefona. Appena sento che è lui dico: “Maestro, io sto svenendo”. E lui: “Mantieniti, Ciucculati­na d’a ferrovia è un capolavoro”. E attacca».

Scontroso?

«Per dire che uno aveva talento lui diceva “tiene ‘o giallo”. Anni dopo il suo autore mi chiamò per compliment­arsi, e disse che io piacevo tanto al maestro. Disse: “D’Angelo, tu sei giallissim­o”».

Il compliment­o più bello?

«Giallissim­o insieme a “voce del sottoprole­tariato napoletano”».

Nino D’Angelo nonno.

«Ho cinque nipoti».

A Gaetano di due anni fa lezione di napoletano.

«Vivendo a Roma».

Ultima parola insegnata?

«‘U pappavallo. Stiamo imparando gli animali».

«UN JEANS E UNA MAGLIETTA ERA UGUALE A IL TEMPO DELLE MELE, MA PIÙ STRACCIATO. PER 60 BIGLIETTI NON FUI CAMPIONE D’INCASSI»

 ?? ?? Nino D’Angelo nel 1983, l’anno di Un jeans e una maglietta, l’album e il film che gli diedero un grandissim­o successo. A sinistra, il cantante giovanissi­mo
Nino D’Angelo nel 1983, l’anno di Un jeans e una maglietta, l’album e il film che gli diedero un grandissim­o successo. A sinistra, il cantante giovanissi­mo
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