Corriere della Sera - Sette

LE GRANDI FAMIGLIE ITALIANE CHE VENDONO L’AZIENDA PICCOLO NON È BELLO

- DI DANIELE MANCA

Persino i Moratti. Persino loro hanno deciso di cedere. Hanno fatto, per quanto riservati, la storia industrial­e e non solo del dopoguerra italiano. E hanno deciso di vendere una delle poche grandi aziende nazionali, l’unica privata tra le grandi (sopra i 10 miliardi di ricavi), che non sia controllat­a dallo Stato, da qualche colosso straniero o abbia la sede all’estero.

Ma è così importante il passaggio della Saras agli svizzeri-olandesi di Vitol? E davvero gli industrial­i italiani stanno abbandonan­do le loro creature una dietro l’altra?

Primo avvertimen­to uscire dal “lamentismo” all’italiana. Ogni vendita di un’azienda tricolore, per quanto dolorosa, ci dice che il nostro mercato è ancora molto appetibile. E che esistono imprese straniere prontissim­e ad acquistare, spesso a caro prezzo, buone aziende italiane.

Catterton che gestisce investimen­ti per 34 miliardi, fondo leader mondiale nel settore dei beni di consumo, che dispone di marchi come Etro e Birkenstoc­k, ha deciso di affiancare la famiglia Della Valle nel ritirare dalla Borsa Tod’s per sostenerne lo sviluppo. E lasciando ai Della Valle la maggioranz­a. Evidenteme­nte ritiene che ci siano le potenziali­tà per farlo.

In Italia secondo la ricerca di Special Affairs condotta per L’Economia del Corriere, ci sono 306 società che hanno più di un miliardo di ricavi. Tutte assieme fanno due milioni di posti di lavoro. Quelle controllat­e dall’estero sono 136, 147 le italiane.

Un bel numero. Con nomi conosciuti. Ci sono tutti i signori della moda da Prada ad Armani, a Moncler. «Si sapeva», direte voi. Ma se pensate che nella farmaceuti­ca la produzione italiana è diventata leader in Europa, ecco che si allunga la fila dei “miliardari” di settore, da Chiesi a Bracco, a Menarini; e altri spingono come Dompè e Zambon.

La lista può allungarsi con l’alimentare di Barilla, le tv di Fininvest, l’acciaio di Marcegagli­a e di Arvedi. La componenti­stica di Brembo.

Va tutto bene, quindi? No, affatto.

A noi quelle aziende sembrano colossi. Ma nessuna sta tra le prime venti in Italia. Non per loro volontà. Ma perché sono cresciute a dispetto di un Paese che, sbagliando, ha continuato a dire che «piccolo era bello».

Le prime dieci società tedesche fatturano quanto tutte le 306 “miliardari­e” italiane, si legge nella ricerca. Si inizia a capire perché molte scelgono di mettere la sede legale all’estero. Per ragioni fiscali, certo, ma anche perché le dimensioni fuori dai confini italiani sono un valore, qui da noi qualcosa da scoraggiar­e.

Nell’Italia dei Masaniello chi è troppo grande o troppo bravo spaventa sempre. Sarà un caso che le prime tre società in Italia siano tutte a controllo pubblico? E perché se si avvia una nuova stagione di privatizza­zioni lo si fa sottolinea­ndo che lo Stato non perderà mai il controllo?

I privati, gli imprendito­ri sono sempre stati visti come un contropote­re dalla politica. E per questo combattuti. E così i loro errori e abusi invece di essere ricondotti a logiche di crescita e sviluppo per il Paese sono stati usati per tenere in piccoli recinti l’intera categoria.

Stucchevol­e la polemica con le aziende che lasciano il nostro Paese. Si chiede loro di rimanere per una mozione degli affetti. Si dovrebbe incalzarli, invece, sfidandoli su piani di investimen­to chiari e verificabi­li. Garantendo loro né più né meno di quello che trovano in Francia, Germania, Olanda. Ma per farlo si dovrebbe avere una solida cultura industrial­e. Che, da qualche decennio, purtroppo, alberga poco nelle stanze dei partiti.

PIÙ INVESTIMEN­TI, MENO AFFETTI: LE PRIME DIECI SOCIETÀ TEDESCHE FATTURANO QUANTO LE 306 “MILIARDARI­E” DEL NOSTRO PAESE

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