Corriere della Sera - Sette

ORA A CAMBIARE DOBBIAMO ESSERE NOI MEDICI

Vorremmo tutti morire con dignità e poter scegliere almeno un po’ come e con chi lasciare questo mondo. Perché fare il dottore vuol dire rianimare, ma anche sospendere le cure quando sono inutili

- DI GIUSEPPE REMUZZI

Perché continuare ad alimentare e a idratare le persone in stato vegetativo permanente? Così per i medici è più comodo, lo so, ma non lo dovremmo fare più. E come la mettiamo con chi dice «la vita è un dono, va vissuta fino alla sua “fine naturale”»? Qui bisogna intendersi: senza medici e macchine la “fine naturale” della vita di Terri Schiavo e di Eluana Englaro sarebbe stata 16 e 17 anni prima; sono stati i medici a decidere di rianimarle, tanti anni fa, e hanno fatto benissimo. Per la stessa ragione dovrebbero essere i medici a decidere quando smettere, in base ai dettami della scienza, e dopo averne discusso con i famigliari e tenuto conto — quando c’è — della volontà dell’ammalato.

Fare il medico è rianimare ma anche sospendere le cure quando sono inutili. Ricordate la storia di Charlie Gard o quella di Indi Gregory? Due storie molto simili. Charlie aveva una malattia rarissima, la sindrome da deplezione del DNA mitocondri­ale, i pediatri del Great Ormond Street Hospital di Londra hanno fatto il possibile e l’impossibil­e, senza che la situazione migliorass­e. Si è pensato persino a una cura sperimenta­le che però non funziona, nemmeno nei topi. Alla fine i medici hanno deciso di sospendere qualunque terapia; i genitori erano contrari, e allora sono intervenut­i i giudici dell’Alta Corte dell’Inghilterr­a e del Galles e poi quelli della Corte europea dei diritti dell’uomo. Ma che diritto avevano quei giudici di negare perfino l’ultima speranza a un bambino gravemente malato? Eppure, in quel momento sospendere le cure era proprio quello che si doveva fare «nel migliore interesse di quel piccolo paziente». Chi volesse sostenere che nel cervello di Charlie, o di Indi Gregory, se preferite, potesse esserci qualcosa di vitale dovrebbe ammettere che i piccoli soffrivano e vi assicuro che dopo molti mesi di rianimazio­ne le sofferenze possono essere atroci. Se invece nel loro cervello di neuroni non ce ne erano più andare avanti non avrebbe proprio avuto senso. Nel caso di Charlie la sentenza dell’Alta Corte di Inghilterr­a e di Galles che invita i medici «with the heaviest of hearts» (con il pianto nel cuore, diremmo noi) a sospendere i trattament­i è fatta di trenta pagine appassiona­te, piene di cultura medica e giuridica, ma anche di compassion­e e buon senso, insomma un riferiment­o imprescind­ibile per chi volesse approfondi­re questi temi.

Vorremmo tutti morire con dignità e poter scegliere almeno un po’ come e con chi lasciare questo mondo e dopo una vita passata insieme almeno poter salutare i nostri cari. Purtroppo nelle settimane o nei mesi che precedono la morte ti privano di tutto, incluse relazioni e affetti, senza chiederti nemmeno un parere. Un giorno un amma

PURTROPPO NELLE SETTIMANE O NEI MESI CHE PRECEDONO LA MORTE TI PRIVANO DI TUTTO, INCLUSE RELAZIONI E AFFETTI Giuseppe Remuzzi, docente di nefrologia, direttore dell’Istituto di Ricerche farmacolog­iche Mario Negri, e la copertina del suo libro La scelta. Perché è importante decidere come vorremmo morire (Sperling & Kupfer)

lato mi dice: «Pensavo che la morte colpisse alle spalle, non di fronte, come sta facendo». La morte qualche volta colpisce alle spalle, ma solo qualche volta; quando è così, è tutto più semplice, ma il più delle volte la morte ce l’hai davanti. È un guaio, perché della morte e del morire si parla poco, il meno possibile e così se ce l’hai davanti — magari per settimane o mesi — sei completame­nte indifeso. O meglio, lo saresti se non ci fossero vicino a te medici e infermieri che qualche volta dedicano attenzione anche a chi sta per morire, ma qualche volta no, non sempre perlomeno e quasi mai abbastanza. I medici sono fatti per guarire, per trovare sempre nuovi rimedi, per farci continuare a vivere, insomma, ma restare in vita a tutti i costi per qualche ammalato può essere faticoso o addirittur­a insopporta­bile. Sono pochi i dottori che consideran­o parte della loro missione l’aiutarci a morire come vorremmo o comunque con meno disagi possibili, e sono ancora meno quelli davvero preparati a farlo con dedizione, coscienza e garbo. Su questo dovremmo riflettere perché durante il nostro corso di studi — che è lungo, lunghissim­o, si arriva qualche volta fino a dieci anni o più — nessuno debba più trascurare questo aspetto, che è almeno importante quanto tutti gli altri.

Non si può certamente generalizz­are, ma a chi muore certi medici non riservano nemmeno le attenzioni che gli dedicava un gatto, Oscar, “Oscar the Cat”: lo racconta il più grande giornale di medicina del mondo, il New England Journal of Medicine, in uno degli articoli più letti degli ultimi anni. Allo Steere House Nursing Center di Providence, negli Stati Uniti, una struttura per malati terminali, c’è un gatto, un trovatello, che con il tempo ha imparato a prevedere chi morirà di lì a poco, e non sbaglia mai, si accuccia sul letto di quell’ammalato e ci sta fino all’ultimo; così è vicino a chi, se no, sarebbe morto da solo. «Chissà forse vuole accompagna­re la nonna in paradiso», ha sussurrato Julie, la nipotina di Sara, che sarebbe morta di lì a poco. «Questo riconoscim­ento è per Oscar, Oscar the Cat, per la sua attenzione a quelli che hanno più bisogno», c’è scritto sulla targa che gli infermieri di Providence hanno voluto

dedicare al loro gatto. Perché non facciamo anche noi per i nostri ammalati almeno un po’ di quello che faceva Oscar nel suo ospedale?

Non siamo qui per soffrire ma certe volte le sofferenze sono insopporta­bili, e allora «ci vorrebbe una legge» si dice. Forse, ma non ne sono nemmeno così sicuro. «La legge è il luogo più inadatto, più inospitale per depositarv­i visioni ultime della vita» scriveva il Corriere della Sera qualche anno fa. È verissimo, regole che valgano per tutti non se ne possono stabilire; questa è materia delicatiss­ima, fatta di pochi punti fermi e moltissime storie, diverse una dall’altra, e di tante sfumature che coinvolgon­o la sfera privata delle persone. Ci vuole grande sensibilit­à e tanto buon senso e le regole, se ce ne saranno, devono essere semplici, dettate dalle conoscenze e mai troppo rigide.

Piuttosto che nuove leggi sarebbe opportuno a mio parere farci guidare da quelle che ci sono già, quelle che fanno riferiment­o alla sedazione palliativa, due leggi, una del 2010 e una del 2017, contengono

PERCHÉ NON FACCIAMO PER I NOSTRI MALATI ALMENO QUELLO CHE FACEVA IL GATTO OSCAR, ACCUCCIATO SUL LETTO DI CHI MORIVA SOLO?

disposizio­ni molto dettagliat­e per come affrontare gli ultimi momenti della vita, c’è scritto tutto, ma proprio tutto, quello che si può e non si può fare e come farlo. Il malato che ha pochi giorni da vivere, con sofferenze insopporta­bili, refrattari­e ai farmaci comuni, o con crisi di ansia incontroll­abili, (col consenso dei famigliari e delle autorità sanitarie, si capisce) se lo vuole fortemente, può essere addormenta­to e accompagna­to così alla fine della sua vita. Non solo, ma qualche volta «l’ipocrisia potrebbe essere una virtù per ridurre le sofferenze dei malati senza offendere certe sensibilit­à ed evitare» scriveva Angelo Panebianco «di portare in piazza ciò che non è assolutame­nte idoneo a essere esposto in pubblico».

Nel 2019 la Corte costituzio­nale scrive: «Il suicidio medicalmen­te assistito è concesso a malati con patologia irreversib­ile che abbiano intollerab­ili sofferenze, però capaci di prendere decisioni libere e consapevol­i e tenuti in vita da procedure invasive». E perché la Corte costituzio­nale ha preso quella decisione? Perché, dicono, non c’è una legge che regoli quello che oggi chiamano «suicidio medicalmen­te assistito» e io chiamerei invece col suo nome: il desiderio di chi non ce la fa più di porre fine alla sua vita. Il mio parere personale (anche se capisco bene le ragioni degli altri) è che di suicidio medicalmen­te assistito non si dovrebbe nemmeno parlare, è un’aberrazion­e, nella forma e nella sostanza. È una forma di eutanasia, ma non si vuole che la pratichi il medico o l’infermiere, si chiede al malato di somministr­arsi lui stesso i farmaci che porranno fine alla sua esistenza. C’è niente di più ipocrita?

E le disposizio­ni di fine vita? Le disposizio­ni di fine vita rappresent­ano una guida per famigliari, medici e infermieri, che qualche volta è preziosa ma c’è anche il caso che non lo sia affatto. Ricordiamo­ci sempre di Michael DeBakey, il più grande chirurgo dei suoi tempi, rianimato nonostante avesse scritto di non farlo e nonostante avesse 97 anni. Lui alla fine di tutto ha detto ai medici: «Grazie». Gli hanno fatto notare che aveva lasciato scritto di non rianimarlo e lui: «In un caso così, i medici devono saper decidere senza bisogno di comitati».

E il Comitato di bioetica? In questi casi serve a poco o nulla, servono invece medici bravi e preparati che conoscano i loro malati e sappiano fare delle scelte, fa parte della nostra responsabi­lità. «Viene uno con trecento malattie, perché deve morire in Rianimazio­ne dopo mesi di ventilazio­ne meccanica? Non è umano, siamo mortali e dovremmo poterlo accettare.» È un infermiere che parla, hanno buon senso gli infermieri.

A questo punto qualcuno di voi si chiederà se c’è contraddiz­ione fra quello che abbiamo discusso finora e la visione della Chiesa. A me pare proprio di no. In un messaggio del novembre 2017 alla World Medical Associatio­n Papa Francesco sosteneva che «serve un supplement­o di saggezza perché oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattament­i che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona». E a questa frase, che già dice tutto, aggiungeva: «Possiamo e dobbiamo impegnarci a combattere tutto ciò che rende il morire più angoscioso e sofferto». È proprio così.

IL TESTAMENTO BIOLOGICO RAPPRESENT­A UNA GUIDA CHE QUALCHE VOLTA È PREZIOSA, MA ALTRE VOLTE NON LO È AFFATTO

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