PERFETTI,SÌ
PRIMA REGOLA DELLA RICETTA ORIENTALE PER LA FELICITÀ: LA RIPETIZIONE PERCHÉ LA CHIAVE (COME INSEGNA WENDERS) È LA CURA DI SÉ E DI CIÒ CHE CI STA ATTORNO
Il rumore aspro della scopa di saggina che, all’alba, ogni giorno, sale dal cortile in cemento mentre accompagna le foglie secche da sgomberare; la prima luce del mattino che irrompe gentile attraverso la finestra a scorrimento semichiusa; gli occhi che si aprono alla realtà minima di un piccolo appartamento nel cuore di Tokyo; il futon ripiegato, i gesti ripetuti come un mantra per prepararsi alla giornata di pulizie dei bagni pubblici cittadini. Questo l’incipit – ma anche il tema dominante – dell’ultimo capolavoro di Wim Wenders, il regista tedesco che è capace di entrare come nessuno nel cuore dell’esistenza, svelandola quasi senza proferire parola. E allo stesso tempo in grado di suscitare le reazioni più inconsulte nel pubblico che, senza mezze misure, o lo ama o lo odia.
Perfect Days, i giorni perfetti del protagonista potrebbe essere un film-haiku, un nonsense pieno di commozione e valore proprio nell’assenza di trama, di accadimenti (se non marginali, eppure importanti). In realtà sollecita una riflessione che travalica i confini di un Paese e di una cultura, quella del Sol Levante, che ha fatto dei riti una ragion d’essere. La perfezione del gesto, si potrebbe dire, che ai nostri occhi rende così affascinante l’attitudine verso la vita di un popolo che non potrebbe essere più distante: fisicamente ed emotivamente. Ma è davvero così?
In altre parole: il successo di questo racconto immaginifico si regge sull’anelito onnipresente di ciascuno di noi, sempre alla ricerca di una ricetta per la felicità? Insomma, come impostare la nostra vita per godere il più possibile di “giorni perfetti”? «Intanto» ci dice Junji Tsuchiya, sociologo e docente all’Università Waseda di Tokyo «mi preme sottolineare che Wenders è riuscito a fotografare alcune caratteristiche di noi giapponesi, lui straniero, in un modo autentico quanto empatico, evitando pregiudizi e stereotipi: un grande risultato.
Dunque, ciò che rende speciale questo film è, innanzitutto, la rappresentazione precisa del codice di etica sociale nipponica. Un valore che pone l’accento sulla “vita regolare” e su “onestà e diligenza” come espressioni di “moralità pubblica”. Il regista, insomma, è consapevole che la precisione della routine quotidiana da dover rispettare è un prodotto delle origini culturali della società giapponese più che della personalità del protagonista».
Ecco: il protagonista, Hirayama, con i suoi silenzi, il volto capace di esprimere una categoria infinita di emozioni, “parla” del Giappone. Va bene: ma di quale Giappone? «C’è nella cultura del Sol Levante un’antica sapienza del gesto» ci spiega Ornella Civardi, iamatologa, che ha appena pubblicato Haiku. Poesie giapponesi delle quattro stagioni e il codice etico dei samurai del 17° secolo Hagakure (entrambi per Nuinui Editrice). «Anche nelle arti, dove in Occidente si assegna tanta importanza al talento innato, all’estro del genio, in Oriente si tende invece a ritenere molto più significativo, anche ai fini del risultato, l’impegno, la lunga dedizione. La calligrafia, l’origami, la pittura a inchiostro, la cerimonia del tè, perfino le arti marziali s’imparano attraverso la reiterazione paziente dello stesso gesto».
E qui incontriamo una prima rivelazione sulla ricetta orientale della felicità: la ripetizione. Fare e rifare, iterare lo stesso movimento porta, inevitabilmente, se non alla perfezione (dominio di pochi maestri) alla sapienza motoria, alla scioltezza dell’azione e quindi alla soddisfazione personale. Qualcosa che intuitivamente ci fa pensare ai campioni dello sport: calciatori che si trovano senza guardarsi, che sanno sempre dove si trova il pallone e come colpirlo; cavalieri che diventano tutt’uno con il loro destriero; pugili che “pungono” l’avversario con velocità e potenza; danzatori che trasformano i propri arti in ali tanto che paiono volare sul palcoscenico.
E noi comuni mortali, capaci in fin dei conti di trovare soddisfazione nel ripetere ogni giorno i riti di un’esistenza certo non eccezionale — rispetto ai rari esseri umani che si elevano per le loro doti uniche — e, tuttavia, eroi nel nostro piccolo. «La chiave è la cura del sé e di ciò che ci sta attorno» conferma la dottoressa Civardi «anche delle cose più umili (basti pensare alla tuta “Tokyo Toilets” indossata da Hirayama). L’accudimento è un modo minimo e senza pretese di migliorare il mondo. Non è la via eroica, dell’ambizioso che punta alla Storia con grandi gesta (via facile) e ottiene gloria come remunerazione. Noi abbiamo un altro premio».
Noi: significa che questa chiave di lettura dell’esistenza riguarda tutti. Anche gli occidentali. Anche chi non ha capito il film di Wenders ed è uscito dalla sala sbuffando: «Ma dov’era la trama?». «Devo ammettere» confessa per esempio lo scrittore Tiziano Scarpa (Premio Strega 2009 per Stabat Mater, Einaudi) «che i miei giorni perfetti a volte sono retrospettivi: cioè una specie di esame di coscienza serale o di Super Io sentenziano che ho speso bene la giornata. Un’arte della giornata perfetta? Per me dovrebbe essere spontanea, dunque, se è davvero perfetta, dovrebbe essere non artificiosa. Ma come conciliare tutto questo con la routine, le abitudini collaudate, come quelle del protagonista del film
FARE E RIFARE PORTA, INEVITABILMENTE, SE NON ALLA PERFEZIONE ALLA SAGGEZZA MOTORIA, E DUNQUE ALLA SODDISFAZIONE
di Wenders? Qui entriamo in una contraddizione. Almeno apparente. Perché, e questo è curioso, nella raccolta di poesia intitolata Nelle galassie oggi come oggi, che raccoglie versi di Raul Montanari, Aldo Nove e miei, ho dedicato una cover poetica a Perfect Day di Lou Reed. Iniziava così: Oggi è stato un giorno perfetto. L’amore l’abbiamo proprio fatto. L’abbiamo fatto come il panettiere fa il pane».
Dunque, anche nel materialistico Occidente, nonostante le distinzioni tra naturalezza e abitudine (con la prima foriera di benessere), alla fine si ricade nel gesto automatico proprio perché figlio di infinite ripetizioni. Proviamo ora a ritornare in Oriente. E vediamo come percepisce la felicità di una giornata un artista del calibro di Meng Huang, sodale di Ai Weiwei e in equilibrio perfetto tra Pechino e Berlino, dove si trova il suo atelier. «Quando penso alla bellezza della vita quotidiana» racconta «penso spesso al mio studio: quando inizierò a lavorare, sarò lì tutti i giorni. Il mio studio
Hirayama in due situazioni che si ripetono nelle sue giornate: il momento prima del sonno, trascorso a leggere buona letteratura, da William Faulkner a Patricia Highsmith, e il percorso in bicicletta che lo porta ogni sera a cenare alla stessa tavola calda
non ha una connessione Internet e ho voluto intenzionalmente mantenere la distanza tra quel luogo e il mondo esterno in modo da poter trascorrere la giornata secondo i miei ritmi. Quando arrivo, alle 11 del mattino, il mio primo passo è far bollire l’acqua, preparare il tè e poi dipingere. So che alle 16, nel pomeriggio, i bambini dell’asilo nel cortile accanto cominceranno a fare chiasso. Sarà una giornata molto felice. Guardare questi bambini parlare e muoversi è un grande relax. Nel mio studio di solito esco molto tardi, oltre a dipingere leggo libri e penso ad alcuni problemi che non potranno mai essere risolti, come la natura dell’arte, che vanno oltre le mie capacità ma mi attraggono. La vita è così: quando sei consapevole, fai il lavoro che ti piace e che ti consente di eliminare in qualsiasi momento i tuoi desideri ridondanti e inutili, perché la maggior parte di essi sono la tua vanità. Mantenere una sorta di semplicità nella vita può aiutarti a raggiungere la pace della mente e la calma. Ma è davvero così? Sarebbe fantastico se potessi davvero farlo».
Il flusso di coscienza di Meng Huang ricorda da vicino le peripezie quotidiane di Hirayama. La sosta nel parco del tempio shinto dove vede gli stessi volti e sorride, senza parlare, godendo della vita che gli scorre attorno. Meng Huang è cinese, non giapponese. Però, senza saperlo, cerca la stessa cosa: la felicità attraverso l’abitudine. Come lo spieghiamo? Torniamo a Tokyo. «Nella storia del monachesimo giapponese (e non solo giapponese, in realtà)» dice ancora Ornella Civardi «c’è l’idea molto radicata che l’attività manuale svolta con coscienziosità e impegno abbia una funzione salvifica. Nei monasteri zen i monaci sono tenuti a occuparsi della cucina, del giardino, delle pulizie, nella convinzione che la ripetizione quotidiana, quasi rituale di quei gesti liberi la mente. Il lavoro manuale — che forse troppo spesso è considerato estraneo o antitetico all’evoluzione spirituale — viene invece adottato come un vero e proprio strumento di perfezionamento individuale, al pari della meditazione. Non mi sembra eccessivo affermare che per Hirayama il lavoro di pulitore di bagni rappresenti una forma di meditazione, un modo per stabilire la sua presenza armonica nel mondo».
Aggiunge Junji Tsuchiya: «L’accurata pulizia della toilette pubblica da parte del protagonista è pienamente integrata nel primo valore morale che è una vita regolare. Ma simboleggia, più che altro, il secondo valore morale che richiede onestà e diligenza. Inutile dire che questa “diligenza” nei valori morali è stata la forza trainante dell’antica gloria economica nei tempi passati del Giappone in cui l’onestà era richiesta come precetto». Da sociologo, il professor Tsuchiya fa emergere le conseguenze etiche di un comportamento apparentemente “umile”: insomma, così i giapponesi hanno costruito la loro modernizzazione senza mai dimenticare le tradizioni del passato.
Ma noi, a qualsiasi latitudine, a Est come a Ovest, possiamo ben capire che la chiave per inseguire (senza mai raggiungere?) i “giorni perfetti” è dentro di noi. Lo spiega bene lo scrittore cinese Xiao Yunfeng, autore di novelle per bambini (ha venduto a oggi due milioni di copie soltanto in Cina): «Alle sei del mattino ho aperto gli occhi
LA STUDIOSA: «PER HIRAYAMA IL LAVORO DI PULITORE DI BAGNI PUBBLICI RAPPRESENTA UNA FORMA DI MEDITAZIONE»
nel mio letto, nel mio appartamento a Pechino e la notte scorsa ho dormito bene e profondamente. In questo momento, la mia gola non è né secca né pruriginosa e la testa non mi fa male, il che indica che è una giornata che comincia in salute. Ho detto buongiorno alla mia famiglia e ai miei amici su WeChat, e mia madre ha subito risposto con un emoticon da anziana. Poi mi sono alzato e mi sono messo davanti alla finestra mentre mi lavavo i denti. I lampioni fuori brillavano ancora di una calda luce arancione. Gli anziani stavano già portando a spasso i loro cani mentre si godevano l’aria leggera. Un’auto parcheggiata sul ciglio della strada si è messa in moto e il ronzio dello spazzolino è arrivato fino alle mie orecchie. Non penso a nient’altro, mi concentro solo su questo momento. Questa normalità, pace, serenità e ordine sono l’inizio della giornata».
Domattina, lavandoci i denti, proveremo anche noi a vedere la vita con questi occhi.