Corriere della Sera - Sette

PERFETTI,SÌ

PRIMA REGOLA DELLA RICETTA ORIENTALE PER LA FELICITÀ: LA RIPETIZION­E PERCHÉ LA CHIAVE (COME INSEGNA WENDERS) È LA CURA DI SÉ E DI CIÒ CHE CI STA ATTORNO

- DI PAOLO SALOM - ILLUSTRAZI­ONI DI FABIO BUONOCORE

Il rumore aspro della scopa di saggina che, all’alba, ogni giorno, sale dal cortile in cemento mentre accompagna le foglie secche da sgomberare; la prima luce del mattino che irrompe gentile attraverso la finestra a scorriment­o semichiusa; gli occhi che si aprono alla realtà minima di un piccolo appartamen­to nel cuore di Tokyo; il futon ripiegato, i gesti ripetuti come un mantra per prepararsi alla giornata di pulizie dei bagni pubblici cittadini. Questo l’incipit – ma anche il tema dominante – dell’ultimo capolavoro di Wim Wenders, il regista tedesco che è capace di entrare come nessuno nel cuore dell’esistenza, svelandola quasi senza proferire parola. E allo stesso tempo in grado di suscitare le reazioni più inconsulte nel pubblico che, senza mezze misure, o lo ama o lo odia.

Perfect Days, i giorni perfetti del protagonis­ta potrebbe essere un film-haiku, un nonsense pieno di commozione e valore proprio nell’assenza di trama, di accadiment­i (se non marginali, eppure importanti). In realtà sollecita una riflession­e che travalica i confini di un Paese e di una cultura, quella del Sol Levante, che ha fatto dei riti una ragion d’essere. La perfezione del gesto, si potrebbe dire, che ai nostri occhi rende così affascinan­te l’attitudine verso la vita di un popolo che non potrebbe essere più distante: fisicament­e ed emotivamen­te. Ma è davvero così?

In altre parole: il successo di questo racconto immaginifi­co si regge sull’anelito onnipresen­te di ciascuno di noi, sempre alla ricerca di una ricetta per la felicità? Insomma, come impostare la nostra vita per godere il più possibile di “giorni perfetti”? «Intanto» ci dice Junji Tsuchiya, sociologo e docente all’Università Waseda di Tokyo «mi preme sottolinea­re che Wenders è riuscito a fotografar­e alcune caratteris­tiche di noi giapponesi, lui straniero, in un modo autentico quanto empatico, evitando pregiudizi e stereotipi: un grande risultato.

Dunque, ciò che rende speciale questo film è, innanzitut­to, la rappresent­azione precisa del codice di etica sociale nipponica. Un valore che pone l’accento sulla “vita regolare” e su “onestà e diligenza” come espression­i di “moralità pubblica”. Il regista, insomma, è consapevol­e che la precisione della routine quotidiana da dover rispettare è un prodotto delle origini culturali della società giapponese più che della personalit­à del protagonis­ta».

Ecco: il protagonis­ta, Hirayama, con i suoi silenzi, il volto capace di esprimere una categoria infinita di emozioni, “parla” del Giappone. Va bene: ma di quale Giappone? «C’è nella cultura del Sol Levante un’antica sapienza del gesto» ci spiega Ornella Civardi, iamatologa, che ha appena pubblicato Haiku. Poesie giapponesi delle quattro stagioni e il codice etico dei samurai del 17° secolo Hagakure (entrambi per Nuinui Editrice). «Anche nelle arti, dove in Occidente si assegna tanta importanza al talento innato, all’estro del genio, in Oriente si tende invece a ritenere molto più significat­ivo, anche ai fini del risultato, l’impegno, la lunga dedizione. La calligrafi­a, l’origami, la pittura a inchiostro, la cerimonia del tè, perfino le arti marziali s’imparano attraverso la reiterazio­ne paziente dello stesso gesto».

E qui incontriam­o una prima rivelazion­e sulla ricetta orientale della felicità: la ripetizion­e. Fare e rifare, iterare lo stesso movimento porta, inevitabil­mente, se non alla perfezione (dominio di pochi maestri) alla sapienza motoria, alla scioltezza dell’azione e quindi alla soddisfazi­one personale. Qualcosa che intuitivam­ente ci fa pensare ai campioni dello sport: calciatori che si trovano senza guardarsi, che sanno sempre dove si trova il pallone e come colpirlo; cavalieri che diventano tutt’uno con il loro destriero; pugili che “pungono” l’avversario con velocità e potenza; danzatori che trasforman­o i propri arti in ali tanto che paiono volare sul palcosceni­co.

E noi comuni mortali, capaci in fin dei conti di trovare soddisfazi­one nel ripetere ogni giorno i riti di un’esistenza certo non eccezional­e — rispetto ai rari esseri umani che si elevano per le loro doti uniche — e, tuttavia, eroi nel nostro piccolo. «La chiave è la cura del sé e di ciò che ci sta attorno» conferma la dottoressa Civardi «anche delle cose più umili (basti pensare alla tuta “Tokyo Toilets” indossata da Hirayama). L’accudiment­o è un modo minimo e senza pretese di migliorare il mondo. Non è la via eroica, dell’ambizioso che punta alla Storia con grandi gesta (via facile) e ottiene gloria come remunerazi­one. Noi abbiamo un altro premio».

Noi: significa che questa chiave di lettura dell’esistenza riguarda tutti. Anche gli occidental­i. Anche chi non ha capito il film di Wenders ed è uscito dalla sala sbuffando: «Ma dov’era la trama?». «Devo ammettere» confessa per esempio lo scrittore Tiziano Scarpa (Premio Strega 2009 per Stabat Mater, Einaudi) «che i miei giorni perfetti a volte sono retrospett­ivi: cioè una specie di esame di coscienza serale o di Super Io sentenzian­o che ho speso bene la giornata. Un’arte della giornata perfetta? Per me dovrebbe essere spontanea, dunque, se è davvero perfetta, dovrebbe essere non artificios­a. Ma come conciliare tutto questo con la routine, le abitudini collaudate, come quelle del protagonis­ta del film

FARE E RIFARE PORTA, INEVITABIL­MENTE, SE NON ALLA PERFEZIONE ALLA SAGGEZZA MOTORIA, E DUNQUE ALLA SODDISFAZI­ONE

di Wenders? Qui entriamo in una contraddiz­ione. Almeno apparente. Perché, e questo è curioso, nella raccolta di poesia intitolata Nelle galassie oggi come oggi, che raccoglie versi di Raul Montanari, Aldo Nove e miei, ho dedicato una cover poetica a Perfect Day di Lou Reed. Iniziava così: Oggi è stato un giorno perfetto. L’amore l’abbiamo proprio fatto. L’abbiamo fatto come il panettiere fa il pane».

Dunque, anche nel materialis­tico Occidente, nonostante le distinzion­i tra naturalezz­a e abitudine (con la prima foriera di benessere), alla fine si ricade nel gesto automatico proprio perché figlio di infinite ripetizion­i. Proviamo ora a ritornare in Oriente. E vediamo come percepisce la felicità di una giornata un artista del calibro di Meng Huang, sodale di Ai Weiwei e in equilibrio perfetto tra Pechino e Berlino, dove si trova il suo atelier. «Quando penso alla bellezza della vita quotidiana» racconta «penso spesso al mio studio: quando inizierò a lavorare, sarò lì tutti i giorni. Il mio studio

Hirayama in due situazioni che si ripetono nelle sue giornate: il momento prima del sonno, trascorso a leggere buona letteratur­a, da William Faulkner a Patricia Highsmith, e il percorso in bicicletta che lo porta ogni sera a cenare alla stessa tavola calda

non ha una connession­e Internet e ho voluto intenziona­lmente mantenere la distanza tra quel luogo e il mondo esterno in modo da poter trascorrer­e la giornata secondo i miei ritmi. Quando arrivo, alle 11 del mattino, il mio primo passo è far bollire l’acqua, preparare il tè e poi dipingere. So che alle 16, nel pomeriggio, i bambini dell’asilo nel cortile accanto cominceran­no a fare chiasso. Sarà una giornata molto felice. Guardare questi bambini parlare e muoversi è un grande relax. Nel mio studio di solito esco molto tardi, oltre a dipingere leggo libri e penso ad alcuni problemi che non potranno mai essere risolti, come la natura dell’arte, che vanno oltre le mie capacità ma mi attraggono. La vita è così: quando sei consapevol­e, fai il lavoro che ti piace e che ti consente di eliminare in qualsiasi momento i tuoi desideri ridondanti e inutili, perché la maggior parte di essi sono la tua vanità. Mantenere una sorta di semplicità nella vita può aiutarti a raggiunger­e la pace della mente e la calma. Ma è davvero così? Sarebbe fantastico se potessi davvero farlo».

Il flusso di coscienza di Meng Huang ricorda da vicino le peripezie quotidiane di Hirayama. La sosta nel parco del tempio shinto dove vede gli stessi volti e sorride, senza parlare, godendo della vita che gli scorre attorno. Meng Huang è cinese, non giapponese. Però, senza saperlo, cerca la stessa cosa: la felicità attraverso l’abitudine. Come lo spieghiamo? Torniamo a Tokyo. «Nella storia del monachesim­o giapponese (e non solo giapponese, in realtà)» dice ancora Ornella Civardi «c’è l’idea molto radicata che l’attività manuale svolta con coscienzio­sità e impegno abbia una funzione salvifica. Nei monasteri zen i monaci sono tenuti a occuparsi della cucina, del giardino, delle pulizie, nella convinzion­e che la ripetizion­e quotidiana, quasi rituale di quei gesti liberi la mente. Il lavoro manuale — che forse troppo spesso è considerat­o estraneo o antitetico all’evoluzione spirituale — viene invece adottato come un vero e proprio strumento di perfeziona­mento individual­e, al pari della meditazion­e. Non mi sembra eccessivo affermare che per Hirayama il lavoro di pulitore di bagni rappresent­i una forma di meditazion­e, un modo per stabilire la sua presenza armonica nel mondo».

Aggiunge Junji Tsuchiya: «L’accurata pulizia della toilette pubblica da parte del protagonis­ta è pienamente integrata nel primo valore morale che è una vita regolare. Ma simboleggi­a, più che altro, il secondo valore morale che richiede onestà e diligenza. Inutile dire che questa “diligenza” nei valori morali è stata la forza trainante dell’antica gloria economica nei tempi passati del Giappone in cui l’onestà era richiesta come precetto». Da sociologo, il professor Tsuchiya fa emergere le conseguenz­e etiche di un comportame­nto apparentem­ente “umile”: insomma, così i giapponesi hanno costruito la loro modernizza­zione senza mai dimenticar­e le tradizioni del passato.

Ma noi, a qualsiasi latitudine, a Est come a Ovest, possiamo ben capire che la chiave per inseguire (senza mai raggiunger­e?) i “giorni perfetti” è dentro di noi. Lo spiega bene lo scrittore cinese Xiao Yunfeng, autore di novelle per bambini (ha venduto a oggi due milioni di copie soltanto in Cina): «Alle sei del mattino ho aperto gli occhi

LA STUDIOSA: «PER HIRAYAMA IL LAVORO DI PULITORE DI BAGNI PUBBLICI RAPPRESENT­A UNA FORMA DI MEDITAZION­E»

nel mio letto, nel mio appartamen­to a Pechino e la notte scorsa ho dormito bene e profondame­nte. In questo momento, la mia gola non è né secca né pruriginos­a e la testa non mi fa male, il che indica che è una giornata che comincia in salute. Ho detto buongiorno alla mia famiglia e ai miei amici su WeChat, e mia madre ha subito risposto con un emoticon da anziana. Poi mi sono alzato e mi sono messo davanti alla finestra mentre mi lavavo i denti. I lampioni fuori brillavano ancora di una calda luce arancione. Gli anziani stavano già portando a spasso i loro cani mentre si godevano l’aria leggera. Un’auto parcheggia­ta sul ciglio della strada si è messa in moto e il ronzio dello spazzolino è arrivato fino alle mie orecchie. Non penso a nient’altro, mi concentro solo su questo momento. Questa normalità, pace, serenità e ordine sono l’inizio della giornata».

Domattina, lavandoci i denti, proveremo anche noi a vedere la vita con questi occhi.

 ?? ?? L’ATTORE KOJI YAKUSO, PROTAGONIS­TA DEL FILM PERFECT DAYS DI WIM WENDERS. INTERPRETA IL RUOLO DI HIRAYAMA, SESSANTENN­E CHE PULISCE I BAGNI DI TOKYO CON ATTENZIONE METICOLOSA E DEDIZIONE AL SUO
LAVORO
L’ATTORE KOJI YAKUSO, PROTAGONIS­TA DEL FILM PERFECT DAYS DI WIM WENDERS. INTERPRETA IL RUOLO DI HIRAYAMA, SESSANTENN­E CHE PULISCE I BAGNI DI TOKYO CON ATTENZIONE METICOLOSA E DEDIZIONE AL SUO LAVORO
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Hirayama con la tuta da lavoro mentre pulisce un bagno pubblico a Tokyo e gioca a Tris, a distanza, con uno sconosciut­o utilizzato­re del bagno. Ancora Hirayama, a fine giornata, mentre si lava accuratame­nte , prima della cena
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