«LA REPUTAZIONE? UNA CRISTALLERIA POI ENTRA L’ELEFANTE...»
La scrittrice-filosofa costruisce un romanzo sui pregiudizi razziali e culturali. «Anch’io sono stata calunniata»
Prendete un tema infiammabile, imbottigliatelo in qualcosa di duro e fragile, accendetelo e lanciatelo in un luogo chiuso. E poi, ditevi pure che non avete colpe, solo perché qualcuno ha fatto il lavoro sporco per voi, che vi limitate a guardare lo spettacolo. Indignati o apatici. Avete in mano il nuovo libro di Ilaria Gaspari, La reputazione (Guanda), una molotov che mescola letteratura e moda, attualità e filosofia, in un trionfo stilistico, dove le parole provano a trattenere il senso di una realtà che ci sfugge, di una verità che si tace e bisogna indovinare tra le righe, come le taglie che le clienti di un negozio non dichiarano mai, e le commesse devono capire a occhio.
Basti, per un saggio della cifra di Gaspari, la frase ricorrente che gioca sull’uso connotativo/denotativo: «Le perle nascono dall’irritazione». Prima c’è l’ostrica, poi l’intrusione. Prima il disagio, la minaccia e poi la sua elegante, preziosa elaborazione, attraverso la scrittura.
La Reputazione del titolo è la sorella giudiziosa di Calunnia, la vera protagonista di questa storia ambientata in un negozio romano di inizio Anni 80 che vorrebbe essere un pezzo di Parigi, come la proprietaria, Marie France, che ha la brillante e infausta idea di dedicare una collezione solo per le giovanissime, le ragazzine, trasformandole in stiliste di sé stesse, clienti non accompagnate. La voce narrante, Barbara, fa la commessa per mantenersi agli studi e si troverà coinvolta nella tempesta che investe il negozio con un’accusa folle e funzionale per chi cerca un capro espiatorio (per i tradimenti immaginari di una moglie o la fuga adolescenziale di una figlia .... ).
Senza svelare la calunnia, possiamo dire che affonda le radici nell’antisemitismo classico. Nelle prime pagine Gaspari costruisce la vita del negozio e di chi lo anima, la sua luminosa e trasparente buona reputazione, come fosse una cristalleria. Poi fa accadere la tempesta, piano piano, goccia a goccia, in un accumulo di segnali, omissioni, elusioni che la rendono difficile da accettare come da respingere, impossibile da ignorare, come un elefante.
Il romanzo ha un cuore tragico, dentro una scatola chic. Com’è nata l’idea?
«Da due mie ossessioni. Quando facevo il dottorato a Parigi ho lavorato nello showroom di Valentino, toccando con mano quanto siano serie e sostanziali questioni che anche a me potevano sembrare frivole, o superficiali, ma il corpo è la nostra superficie e per noi è molto importante, perché nasconde cose molto più profonde, l’ho visto in come cambiava il mio sguardo verso le persone».
La voce narrante gioca a indovinare i tipi umani che entrano nel negozio. Caratteristiche fisiche e caratteriali. Uomini «senza mento», donne «gengivali»... Lei che tipo è?
«In realtà è un modo per giocare sui pregiudizi, nel mostrare che la protagonista cade nel tranello dei corpi... Io comunque sono una dentona. Sorrido molto, così pensano che io sia solare».
Io che tipo sarei?
«Un riccio, chi ha i ricci è un tipo a parte, i capelli prevarranno sulla fisiognomica». Torniamo alle ossessioni. Questo non è un romanzo sulla moda e basta...
«Mi interessava il ruolo della reputazione nelle relazioni interpersonali. Non c’erano romanzi sulla moda in questa chiave: il tema l’avevo scelto, mi serviva la storia». Nella nota d’autore ho letto che si rifà a un evento avvenuto in Francia...
«L’idea me l’ha data Guido, mio marito, stava leggendo un libro sulle leggende metropolitane e ne ha trovata una raccontata dallo storico Edgar Morin, su fatti avvenuti ad Orléans nel 1969, dove si diffuse una calunnia contro i negozi di persone di religione ebraica. Siamo all’indomani del 1968, che ha imposto una rivoluzione nei costumi che non tutti riuscivano a metabolizzare, soprattutto in questa città molto borghese ma non moderna come Parigi; la calunnia aveva una radice antica, che non voglio svelare, e si è abbattuta su chi portava le nuove mode, e poteva venire indicato come un corpo estraneo; poi la faccenda si è conclusa con un piccolo pogrom contro questi negozi. Anni dopo, la ritroviamo a Roma negli Anni 80, ne parla Teresa Ciabatti in Sembrava bellezza». Prendere di mira i negozi di commercianti ebrei è un classico dell’antisemitismo. Di tutti i tempi.
«Certe calunnie non passano mai di moda. L’ho visto lavorando a un documentario sulle leggi razziali. Poi mi ha influenzato anche un altro lavoro, su Ingeborg Bachmann, a Roma. Da milanese che vive nella capitale anche io ho uno sguardo da straniera, come Bachmann, come la proprietaria del negozio, come Barbara o il commesso, ebreo e gay, la cui famiglia ha vissuto le deportazioni, per cui mi sono ispirata alla storia di Umberto Spizzichino, morto in un lager, come ricorda la Pietra d’inciampo nel mio quartiere».
Il romanzo racconta la genesi di una calunnia come una nuvola di sussurri che non ha mai un inizio preciso.
«Me ne sono accorta leggendo le ricostruzioni storiche del grande processo alle streghe di Salem, è impossibile trovare l’anello iniziale, ma mi ha colpito che nel caso di una donna, l’accusa era nata dal fatto che lei, da governante, aveva fisicamente a che fare con i corpi delle ragazzine che l’hanno accusata».
La forza delle calunnie sembra invincibile. Ed eterna. Perché?
«Perché nei rapporti di potere chi calunnia si prende un grande vantaggio. Lo fa alle spalle, noi non sappiamo di essere oggetto delle calunnie. E tutti pensano che qualcosa di vero c’è sempre, altrimenti l’accusa non reggerebbe. Ma non c’è bisogno che regga, non c’è bisogno di credere, basta ascoltarla...»
Lei è mai stata vittima di calunnie?
«Quando ho iniziato l’università, mi è capitato di sentir parlare male di me in mia presenza, da ragazzi più grandi che, per qualche ragione misteriosa, mi fu detto poi, pensavano che fossi straniera e non capissi l’italiano. Per lo più alludendo a miei rapporti personali con i docenti, che è una tipica calunnia contro le femmine, non capita mai contro i maschi».
Ha mai assecondato delle calunnie? O delle dicerie? La protagonista, alla fine, cede un po’ alle voci sulla proprietaria del negozio.
«Non bisogna mai credersi al di sopra degli altri, o dei propri personaggi. A volte, per stanchezza, o per paura di essere esclusi, ridiamo assieme agli altri per non sentirci soli in un gruppo. Ci sono piccole crudeltà fatte anche di silenzi, di sorrisi con cui non prendiamo le distanze da qualcosa che viene detto».
Leggende metropolitane antisemite e pioniere della moda soccombenti. Due temi di stringente attualità, come si dice. Partiamo dal primo.
«Senza entrare qui nel merito della guerra in atto e delle critiche a Israele, mi hanno colpito episodi di antisemitismo in Europa. Che un’attività commerciale riconducibile a persone di religione ebraica venga presa di mira è cosa molto antica...» Marie France, la proprietaria del negozio del romanzo, è una influencer ante-litteram, analogica, che subisce un tracollo. Come Chiara Ferragni.
«Mi ha colpito la sincronicità, ma il libro è ambientato in un’epoca senza i mezzi digitali, in un quartiere, i Parioli, che si sentiva al centro del mondo ed in realtà era all’inizio della sua decadenza».
Nel libro si parla del nostro rapporto con il corpo. Problematico. Il suo?
«Ora, a furia di scriverne e parlarne, è migliorato. Un tempo ero molto magra perché mi dava fastidio occupare molto spazio. Da lettrice mi colpì il racconto di Susanna Tamaro Cuore di ciccia».
Su Instagram il suo nickname è Ilarione. Ha a che fare con questo?
«No, nei primi anni Duemila si usavano accrescitivi per ironizzare: ricordo Manuela Arcuri, la Manuelona nazionale... Ilarione era un soprannome nato per gioco e ci sono restata affezionata».
«HO LAVORATO IN UN NEGOZIO DI VALENTINO DURANTE I MIEI ANNI A PARIGI, POI HO TROVATO LA STORIA CHE STAVO CERCANDO»