«SIAMO UN PO’ TUTTI DEI SOPRAVVISSUTI: IL BOSCO PUÒ SALVARCI»
Natura, maternità, corpi: nel nuovo romanzo la scrittrice indica un antidoto all’inquietudine e all’imperfezione
Il titolo del nuovo romanzo di Alessandra Sarchi, Il ritorno è lontano, nasce da Canzone per una bambina di Fortini: «Di pomeriggio il bosco/ fa l’incanto del sonno./ Il riposo è profondo/ il ritorno è lontano». Una poesia di incantamento che la scrittrice ha scelto perché «è un sentimento che dovremmo coltivare, anche quando l’infanzia con i suoi stupori e le sue paure è passata», racconta. «Quante fiabe iniziano con lo smarrimento dentro un bosco e quanta sapienza in più ne riportano i protagonisti dopo esserne usciti, perché quanto più il ritorno — alla quotidianità, all’alienazione, alla cecità — è lontano, tanto più profonda è la connessione con il mistero dell’esistere».
All’incantamento del bosco fa da contrappeso il disincantamento dei protagonisti del romanzo, prigionieri della propria difficoltà di comunicare (le videochiamate che madre e figlia si scambiano più che costruire un ponte tracciano ogni volta un solco più profondo), della paura di non trovare un posto nel mondo, dell’ansia di riscoprirsi inutili, marginali. La sola via d’uscita sarà proprio quella che si inoltra nel bosco, dove incontrare una natura da salvare ma, soprattutto, che salva.
Che cos’è per lei la natura?
«È difficile darne una definizione perché tutta la nostra cultura tende a identificare la natura con il verde o con gli animali, i paesaggi incontaminati e i fenomeni atmosferici, come se la specie umana non ne facesse parte. Il fatto è che anche noi siamo natura, ovvero movimento, evoluzione, scambio. Per me natura è sentirsi in una relazione profonda e inesplicabile con tutto quanto ci circonda, provarne rispetto, desiderio di conoscenza. Ammettere che esiste una parte inalienabile, perlopiù invisibile, di ogni forma vivente e creata e che l’insieme costituisce un tessuto continuo in cui siamo immersi, il cui equilibrio nasce da tutte le sue componenti e dalla loro interdipendenza reciproca. A furia di saccheggiare il pianeta, non ci siamo resi conto che la specie maggiormente a rischio siamo proprio noi».
Il ritorno è lontano è anche un romanzo sulla maternità e le sue tante forme, che Sarchi ha già indagato in passato, nel suo penultimo lavoro, Il dono di Antonia, per esempio. Ed è un romanzo che mette a confronto tre generazioni di donne — madre, figlia e nipote — ritratte nelle loro “fragilità generazionali” più che nei loro punti di forza. E, ancora, è un romanzo sul corpo: il corpo della madre, che si sente vuoto, e il corpo della figlia, che nel momento più drammatico della manifestazione di protesta contro l’annientamento di una foresta si offre nudo, come nudi sono i tronchi degli alberi quando la lama della sega elettrica li attraversa.
«Sono partita da un’immagine: la nudità degli alberi spogli d’inverno e la nudità dei corpi umani vergognosi di mostrarsi
perché segnati da cicatrici, età, non conformità agli standard», racconta Sarchi. «Degli alberi diciamo che sono belli, i corpi spesso li camuffiamo. Gli umani elaborano di continuo forme di distanziamento e allontanamento dalla loro condizione biologica; per certi aspetti questo è un processo grandioso che porta alla civiltà, ma è anche segno di un’inquietudine insanabile, di un non sentirsi mai a posto. All’immagine della nudità è subentrata quindi una domanda: cosa cura l’umanità e cosa cura il pianeta? Il mio romanzo ruota intorno a questo. Nina, la figlia, e Sara, la madre, sono, ciascuna a modo proprio, convinte di potere, e dovere, salvare qualcosa e qualcuno, seguono un istinto e fanno una scelta, si scontrano con l’imperfezione delle loro azioni e l’inevitabile contraddittorietà delle loro intenzioni».
La maternità, nelle pagine, procede per pieni e per vuoti. Dopo la partenza di Nina — che si trasferisce ad Amburgo per studiare dendrocronologia, cioè la correlazione fra gli accrescimenti annuali degli alberi e i fattori climatici — risuona il vuoto nella vita di Sara. «Avevo perso interesse anche per il mio lavoro», dice Sara, «dovevo trovare un guinzaglio alla paura che mi inseguiva come un cane randagio. Tu eri andata via». E poi c’è il pieno, quasi il troppopieno, quando nella sua vita arriva Pietro. Si esce mai dal ruolo di madre?
«Sara appartiene a quella generazione di donne, più o meno la mia, alle quali è stato detto che potevano avere tutto: carriera, figli e famiglia. In realtà non è stato così. Le carriere si sono piegate a una flessibilità snervante, la famiglia è stata un sacrificio continuo, la loro presenza politica disgregata. Quando Sara se ne rende conto e misura con la malattia la propria vulnerabilità, l’unico ruolo che le sembra di aver svolto fino in fondo è quello di madre. C’è una parte di me che ammira chi non smette mai di voler accudire e far crescere, questo intendo per essere madre, ma c’è un’altra parte di me che rivendica spazio per sé. D’altra parte credo
che non si possa prendersi cura degli altri senza aver imparato, prima di tutto, a farlo per sé».
Nel raccontare il rapporto di amore/ odio fra Sara e il suo corpo non più integro (la recrudescenza di una malattia la costringerà ad un intervento chirurgico) quanto ha influito l’esperienza che lei stessa ha vissuto, il suo riprendere il controllo di un corpo ferito?
«Ho esperienza diretta di come un cambiamento traumatico nel proprio corpo, nel mio caso a seguito di incidente (che ha provocato una paraplegia, ndr), comporti una faticosa ma anche imprevedibile, e a volte positiva, rimodulazione della propria identità. Credo, peraltro, che stia diventando sempre più un’esperienza condivisa: la medicina ci salva da moltissime malattie un tempo incurabili, e ci consente anche di modificare un corpo che sentiamo non corrisponderci, penso alle persone transgender. A un certo punto siamo tutti dei sopravvissuti a noi stessi, al corpo che non abbiamo scelto, che ci è stato dato in dotazione, che inevitabilmente con gli anni, se non con la malattia, ci tradirà e con il quale dobbiamo trovare una convivenza armoniosa, come con il pianeta che ci ospita, l’unico che abbiamo».
Il confronto fra le generazioni è giocato sulla rabbia. Quella di Nina, che sa di avere una rivoluzione da fare, ma allo stesso tempo vive la disperazione dell’intuire che, per quante azioni di disturbo farà, per quante manifestazioni ambientaliste seguirà non avrà un mondo migliore di questo in cui vivere. E quella mai espressa da Sara, prossima ai cinquant’anni senza aver mai partecipato a una protesta organizzata. «Era successo qualcosa che aveva separato in modo netto la sua generazione da quella di Nina», scrive. Che cosa?
«Per un ventennio e più, grosso modo anni ’80 e ’90, il conflitto generazionale sembrava abolito dai discorsi pubblici e dalla letteratura. Poi c’è stato il G8 a Genova. Da allora mi pare si sia innescata una rottura, una sfiducia inguaribile che le nuove generazioni hanno covato virandola chi nel disimpegno, chi in un attivismo radicale e cupo. La rabbia è il motore di molti cambiamenti ed è la reazione umana all’ingiustizia. Certo va controllata, incanalata… Ma il giorno in cui l’umanità smetterà di arrabbiarsi o avrà fatta pace con sé stessa o avrà perso ogni speranza. Nel frattempo è bene ricordarsi che ogni corpo è politico, incrocio fra inalienabile individualità e dinamiche sociali. Anche di questo le ragazze e i ragazzi di oggi sembra stiano riprendendo coscienza». «Se davvero vuoi cambiare il mondo, devi avere fede», dice a Nina Gregor, il fidanzato. Lei in cosa ha fede?
«Vorrei rispondere con Pasolini che credo alla sacralità della vita, ma forse la mia fede è più laica e mi limito a dire che credo si debba accettare l’imperfezione del nostro agire e del nostro pensare, e accogliere e cercare, il bene e la bellezza che, nonostante tutto, esistono».
«PER 20 ANNI IL CONFLITTO FRA GENERAZIONI È STATO ABOLITO DAI DISCORSI PUBBLICI E DALLA LETTERATURA. POI C’È STATO IL G8...»