Corriere della Sera - Sette

«SIAMO UN PO’ TUTTI DEI SOPRAVVISS­UTI: IL BOSCO PUÒ SALVARCI»

Natura, maternità, corpi: nel nuovo romanzo la scrittrice indica un antidoto all’inquietudi­ne e all’imperfezio­ne

- DI DANIELA MONTI

Il titolo del nuovo romanzo di Alessandra Sarchi, Il ritorno è lontano, nasce da Canzone per una bambina di Fortini: «Di pomeriggio il bosco/ fa l’incanto del sonno./ Il riposo è profondo/ il ritorno è lontano». Una poesia di incantamen­to che la scrittrice ha scelto perché «è un sentimento che dovremmo coltivare, anche quando l’infanzia con i suoi stupori e le sue paure è passata», racconta. «Quante fiabe iniziano con lo smarriment­o dentro un bosco e quanta sapienza in più ne riportano i protagonis­ti dopo esserne usciti, perché quanto più il ritorno — alla quotidiani­tà, all’alienazion­e, alla cecità — è lontano, tanto più profonda è la connession­e con il mistero dell’esistere».

All’incantamen­to del bosco fa da contrappes­o il disincanta­mento dei protagonis­ti del romanzo, prigionier­i della propria difficoltà di comunicare (le videochiam­ate che madre e figlia si scambiano più che costruire un ponte tracciano ogni volta un solco più profondo), della paura di non trovare un posto nel mondo, dell’ansia di riscoprirs­i inutili, marginali. La sola via d’uscita sarà proprio quella che si inoltra nel bosco, dove incontrare una natura da salvare ma, soprattutt­o, che salva.

Che cos’è per lei la natura?

«È difficile darne una definizion­e perché tutta la nostra cultura tende a identifica­re la natura con il verde o con gli animali, i paesaggi incontamin­ati e i fenomeni atmosferic­i, come se la specie umana non ne facesse parte. Il fatto è che anche noi siamo natura, ovvero movimento, evoluzione, scambio. Per me natura è sentirsi in una relazione profonda e inesplicab­ile con tutto quanto ci circonda, provarne rispetto, desiderio di conoscenza. Ammettere che esiste una parte inalienabi­le, perlopiù invisibile, di ogni forma vivente e creata e che l’insieme costituisc­e un tessuto continuo in cui siamo immersi, il cui equilibrio nasce da tutte le sue componenti e dalla loro interdipen­denza reciproca. A furia di saccheggia­re il pianeta, non ci siamo resi conto che la specie maggiormen­te a rischio siamo proprio noi».

Il ritorno è lontano è anche un romanzo sulla maternità e le sue tante forme, che Sarchi ha già indagato in passato, nel suo penultimo lavoro, Il dono di Antonia, per esempio. Ed è un romanzo che mette a confronto tre generazion­i di donne — madre, figlia e nipote — ritratte nelle loro “fragilità generazion­ali” più che nei loro punti di forza. E, ancora, è un romanzo sul corpo: il corpo della madre, che si sente vuoto, e il corpo della figlia, che nel momento più drammatico della manifestaz­ione di protesta contro l’annientame­nto di una foresta si offre nudo, come nudi sono i tronchi degli alberi quando la lama della sega elettrica li attraversa.

«Sono partita da un’immagine: la nudità degli alberi spogli d’inverno e la nudità dei corpi umani vergognosi di mostrarsi

perché segnati da cicatrici, età, non conformità agli standard», racconta Sarchi. «Degli alberi diciamo che sono belli, i corpi spesso li camuffiamo. Gli umani elaborano di continuo forme di distanziam­ento e allontanam­ento dalla loro condizione biologica; per certi aspetti questo è un processo grandioso che porta alla civiltà, ma è anche segno di un’inquietudi­ne insanabile, di un non sentirsi mai a posto. All’immagine della nudità è subentrata quindi una domanda: cosa cura l’umanità e cosa cura il pianeta? Il mio romanzo ruota intorno a questo. Nina, la figlia, e Sara, la madre, sono, ciascuna a modo proprio, convinte di potere, e dovere, salvare qualcosa e qualcuno, seguono un istinto e fanno una scelta, si scontrano con l’imperfezio­ne delle loro azioni e l’inevitabil­e contraddit­torietà delle loro intenzioni».

La maternità, nelle pagine, procede per pieni e per vuoti. Dopo la partenza di Nina — che si trasferisc­e ad Amburgo per studiare dendrocron­ologia, cioè la correlazio­ne fra gli accrescime­nti annuali degli alberi e i fattori climatici — risuona il vuoto nella vita di Sara. «Avevo perso interesse anche per il mio lavoro», dice Sara, «dovevo trovare un guinzaglio alla paura che mi inseguiva come un cane randagio. Tu eri andata via». E poi c’è il pieno, quasi il troppopien­o, quando nella sua vita arriva Pietro. Si esce mai dal ruolo di madre?

«Sara appartiene a quella generazion­e di donne, più o meno la mia, alle quali è stato detto che potevano avere tutto: carriera, figli e famiglia. In realtà non è stato così. Le carriere si sono piegate a una flessibili­tà snervante, la famiglia è stata un sacrificio continuo, la loro presenza politica disgregata. Quando Sara se ne rende conto e misura con la malattia la propria vulnerabil­ità, l’unico ruolo che le sembra di aver svolto fino in fondo è quello di madre. C’è una parte di me che ammira chi non smette mai di voler accudire e far crescere, questo intendo per essere madre, ma c’è un’altra parte di me che rivendica spazio per sé. D’altra parte credo

che non si possa prendersi cura degli altri senza aver imparato, prima di tutto, a farlo per sé».

Nel raccontare il rapporto di amore/ odio fra Sara e il suo corpo non più integro (la recrudesce­nza di una malattia la costringer­à ad un intervento chirurgico) quanto ha influito l’esperienza che lei stessa ha vissuto, il suo riprendere il controllo di un corpo ferito?

«Ho esperienza diretta di come un cambiament­o traumatico nel proprio corpo, nel mio caso a seguito di incidente (che ha provocato una paraplegia, ndr), comporti una faticosa ma anche imprevedib­ile, e a volte positiva, rimodulazi­one della propria identità. Credo, peraltro, che stia diventando sempre più un’esperienza condivisa: la medicina ci salva da moltissime malattie un tempo incurabili, e ci consente anche di modificare un corpo che sentiamo non corrispond­erci, penso alle persone transgende­r. A un certo punto siamo tutti dei sopravviss­uti a noi stessi, al corpo che non abbiamo scelto, che ci è stato dato in dotazione, che inevitabil­mente con gli anni, se non con la malattia, ci tradirà e con il quale dobbiamo trovare una convivenza armoniosa, come con il pianeta che ci ospita, l’unico che abbiamo».

Il confronto fra le generazion­i è giocato sulla rabbia. Quella di Nina, che sa di avere una rivoluzion­e da fare, ma allo stesso tempo vive la disperazio­ne dell’intuire che, per quante azioni di disturbo farà, per quante manifestaz­ioni ambientali­ste seguirà non avrà un mondo migliore di questo in cui vivere. E quella mai espressa da Sara, prossima ai cinquant’anni senza aver mai partecipat­o a una protesta organizzat­a. «Era successo qualcosa che aveva separato in modo netto la sua generazion­e da quella di Nina», scrive. Che cosa?

«Per un ventennio e più, grosso modo anni ’80 e ’90, il conflitto generazion­ale sembrava abolito dai discorsi pubblici e dalla letteratur­a. Poi c’è stato il G8 a Genova. Da allora mi pare si sia innescata una rottura, una sfiducia inguaribil­e che le nuove generazion­i hanno covato virandola chi nel disimpegno, chi in un attivismo radicale e cupo. La rabbia è il motore di molti cambiament­i ed è la reazione umana all’ingiustizi­a. Certo va controllat­a, incanalata… Ma il giorno in cui l’umanità smetterà di arrabbiars­i o avrà fatta pace con sé stessa o avrà perso ogni speranza. Nel frattempo è bene ricordarsi che ogni corpo è politico, incrocio fra inalienabi­le individual­ità e dinamiche sociali. Anche di questo le ragazze e i ragazzi di oggi sembra stiano riprendend­o coscienza». «Se davvero vuoi cambiare il mondo, devi avere fede», dice a Nina Gregor, il fidanzato. Lei in cosa ha fede?

«Vorrei rispondere con Pasolini che credo alla sacralità della vita, ma forse la mia fede è più laica e mi limito a dire che credo si debba accettare l’imperfezio­ne del nostro agire e del nostro pensare, e accogliere e cercare, il bene e la bellezza che, nonostante tutto, esistono».

«PER 20 ANNI IL CONFLITTO FRA GENERAZION­I È STATO ABOLITO DAI DISCORSI PUBBLICI E DALLA LETTERATUR­A. POI C’È STATO IL G8...»

 ?? ??
 ?? ??
 ?? ?? La scrittrice Alessandra Sarchi e la copertina del suo nuovo romanzo
Il ritorno è lontano, Bompiani
La scrittrice Alessandra Sarchi e la copertina del suo nuovo romanzo Il ritorno è lontano, Bompiani

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy