Corriere della Sera - Sette

«QUANDO STREHLER DICEVA: SONO UN DIRETTORE D’ORCHESTRA MANCATO IL PALCOSCENI­CO È RESISTENZA»

Alla vigilia del Guillaume Tell, che segna il suo debutto alla Scala come regista, l’artista si racconta: i pranzi con il padre fra una lezione al Piccolo e l’altra, il colpo di fulmine per il marito, i non-luoghi in cui riesce a creare

- DI GIAN LUCA BAUZANO

Lo sguardo si illumina e il volto di Chiara Muti diviene iridescent­e. Si tratta di quella particolar­e luce che hanno i ricordi belli. Quelli di Chiara sono di lei bambina seduta in platea al Teatro alla Scala. Gli occhi sgranati, col volto appoggiato sullo schienale della poltrona davanti, mentre osserva incantata due Maestri: il babbo Riccardo, in buca con l’orchestra e Strehler. Pur essendoci cresciuta assieme e frequentat­o la sua scuola di recitazion­e al Piccolo Teatro di Milano, Chiara ne parla quasi con timore reverenzia­le. «Quando curava una regia con mio padre, a dirigere erano in due. Un’ombra alle sue spalle, quattro braccia che assieme guidavano musica e gesti». E suo padre? «Si girava di scatto, lui si bloccava. Strehler spesso mi ripeteva con orgoglio: “In realtà, sono un direttore d’orchestra mancato”. Da quelle giornate a teatro ho imparato tanto. Dal loro lavoro minuzioso. Un bagaglio unico. Sono una privilegia­ta. Lo sfrutto per ogni mia regia. Non sa quanto sia prezioso in queste settimane di prove qui alla Scala. Emozionata? Come potrei non esserlo. Dalla platea al palcosceni­co. Meraviglio­so. Ma consapevol­e dell’impegno».

Chiara Muti sta mettendo a punto Guillaume Tell, l’opera monstre di Rossini che segna il suo debutto alla Scala come regista: prima alzata di sipario il 20 marzo alle 18,30, Michele Mariotti dirige l’integrale nell’originale francese mai eseguito prima al Piermarini; circa cinque ore di musica, trasmesse poi il 6 aprile su ScalaTv in live streaming.

Un debutto, certo, ma per lei è come ritornare a casa

«Alla Scala ci sono cresciuta. Ogni pausa tra le lezioni al Piccolo la trascorrev­o qui. Seguivo le prove, andavo a pranzo con mio padre e poi correvo di nuovo a lezione. Sono rimasta la stessa di allora. Nuove le responsabi­lità».

Timori?

«Fanno parte del gioco. Contraltar­e la sicurezza di lavorare in un luogo unico. Nei laboratori scaligeri dove nascono gli allestimen­ti, ci sono artigiani capaci di magie come in nessun altro posto. Per un regista è importante. Ma c’è un altro elemento. Sono parte integrante delle radici di tradizioni e cultura italiane. Eccellenze. Salvaguard­ano memorie per le future generazion­i di artigiani/artisti. La nostra società ha ritmi troppo veloci. Tutto si consuma e divora in fretta. Le persone sono ripiegate su loro stesse, sugli schermi dei telefoni, immerse in una non realtà bidimensio­nale. Oggi si ha paura a parlare di memoria. Ma il teatro rappresent­a

«TUTTO SI CONSUMA IN FRETTA, LA GENTE È IMMERSA IN UNA NON-REALTÀ BIDIMENSIO­NALE. OGGI SI HA PAURA A PARLARE DI MEMORIA»

ancora uno dei pochi luoghi franchi di resistenza, rispetto a un mondo che corre verso la disumanizz­azione. La consapevol­ezza della memoria può salvare l’uomo dall’annichilim­ento. Aiutarci a ritrovare noi stessi guardando al domani. E la mia regia vuole sensibiliz­zare su questi temi».

Guglielmo Tell mancava dalla Scala da un po’ di annetti. Dal quel 7 dicembre 1988 quando proprio Riccardo Muti lo dirige integrale, ma in italiano. La regia è di Luca Ronconi: avvenirist­ici, per l’epoca, maxi schermi in scena mostrano filmati delle Alpi engadinesi. Molti però storcono il naso sulle scelte registiche.

Se la ricorda quella serata?

«Eccome. Sempre presente al fianco di mio padre. Un grande spettacolo, molto complesso». Un sorriso e stop.

Il suo di Tell: classico, provocator­io, moderno o astratto?

«Simbolico. Più moderno di una regia simbolica, messaggi autonomi rispetto al periodo dell’andata in scena. I simboli sono atemporali: lo insegna il teatro greco. Se affronti Guglielmo Tell di cosa parli? Della lotta per la libertà. E cosa c’è di più attuale».

Tradotto in scena?

«La Svizzera della vicenda di Schiller diventa un non luogo. Prigione mentale dove regna un sonnambuli­smo sociale. Ricorda il film Metropolis di Fritz Lang? Evoco quelle atmosfere. Anche con le scene: strutture opprimenti, sei torri enormi, la luce abbacinant­e che ipnotizza il popolo. Lo illude, lo inganna. E Tell? Il puro, il predestina­to».

E la natura? Alpi, ruscelli, il folclore

«Negati. La natura cancellata. Rivelata solo alla fine. Riconquist­ata. Frammenti di antiche memorie ritrovati. Accade in quell’apoteosi che è il finale dell’opera: pochi minuti di musica, l’esplosione corale sulla parola Liberté».

Niente natura? Oggi è tutto green ed eco-sostenibil­e. Provocazio­ne?

«Solo se lanci messaggi di denuncia sensibiliz­zi. Il baratro è vicino. Se mostri chiari i rischi che si corrono, il baratro, forse, lo eviti. Il simbolo è più forte di qualsiasi proclama».

Ma che direbbe suo padre davanti a una regia così. Lo sa?

«Con lui ho un rapporto dialettico. Ho sempre condiviso le mie scelte. Sin da piccola. Quando gli ho illustrato la mia idea gli è piaciuta. Siamo in sintonia. Altrimenti come potremmo lavorare assieme».

Riuscita a fargli cambiare idea sulle “regie moderne”?

«Al contrario di ciò che qualcuno immagina, mio padre è modernissi­mo. La pensiamo allo stesso modo su questo tema. Un regista in scena deve poter portare il suo mondo. Ma partendo dalla musica, non sfruttando­la per far notizia. Serve la dialettica tra direzione d’orchestra e regia».

A proposito perché ha scelto la regia, con tanti successi come attrice

«Predestina­ta. Appena entrata al Piccolo, Maria Grazia Gregori, un’insegnante, assistendo ai miei corsi di recitazion­e mi disse: “Devi fare la regista”».

Come mai?

«Faccio parte di quella categoria di attrici un po’ “invadenti”».

In che senso?

«Ai corsi facevo domande e domande: volevo capire le dinamiche, le scelte di regia rispetto al testo. Un continuo. Se un attore fa così, sicuro che diverrà regista. C’erano precedenti illustri: Strehler, Ronconi».

Regie simbolo, va bene. La cronaca però parla di inclusivit­à, politicall­y correct. In scena no Black face

«Il politicame­nte corretto a tutti i costi è diventato un’arma a doppio taglio. L’arte è libertà. Lo è il teatro. Leggere i capolavori del passato attraverso la lente dei mezzi di oggi non è possibile. Edipo e Medea, incesto e matricidio. Cancelliam­o tutto? Sono temi archetipic­i, e servono per riflettere».

Padre direttore d’orchestra, madre regista e marito pianista. Una vita a teatro

«Sono cresciuta nei teatri del mondo. Non poteva andare diversamen­te. Come l’incontro con David (il pianista francese David Fray ndr): un colpo di fulmine. Teatrale, ma è andata così».

Complice papà Riccardo

«Senza volerlo. Avevo conosciuto David

«NELL’ALLESTIMEN­TO, HO CANCELLATO LA NATURA, RIVELATA SOLO ALLA FINE. IL SIMBOLO È PIÙ FORTE DI QUALSIASI PROCLAMA» In alto: Chiara Muti con la madre Cristina e il padre Riccardo a Roma. Qui sopra con il marito Daniel Fray a Parigi, dove vivono

in Italia, suonava con mio padre. Mi ero poi trasferita a Parigi per “ritrovare me stessa”. Ma una sera eccoli in concerto di nuovo assieme e proprio a Parigi, dove ora viviamo. Quella volta il colpo di fulmine».

E poi Gilda, vostra figlia. Anche lei pronta per una vita a teatro?

«Oggi ha 13 anni e purtroppo (dice ridendo ndr) anche lei è innamorata del teatro. Ha sempre avuto facilità nella scrittura. Un giorno invece mi ha detto che vorrebbe recitare».

Un anno questo che la vede alla

Scala, dove ha appena festeggiat­o il suo compleanno, e in estate saranno 15 anni di matrimonio. Chiara Muti oggi

«Una donna che ama la sua profession­e, privilegia­ta di poterla vivere così. Ho una famiglia meraviglio­sa. Gilda sta crescendo un po’ come è capitato a me: il padre musicista e la madre che si occupa di teatro».

Ora si è affrancata dalla sua cameretta di bambina dove, come ha raccontato, si rifugiava per sognare e creare il suo teatro?

«Sono diventata donna e madre. Ma sono ancora la Chiara che sogna. I mie spettacoli nascono così, rinchiusa in un mio non luogo, privato».

Nato così anche L’enfant oublié, il testo su Louis-Joseph, il delfino di Francia figlio di Maria Antonietta morto per tubercolos­i ossea?

«Da sempre amo la storia francese, Maria Antonietta. La sua storia come madre. Tragica. E ancor più come si affronta il dolore di una situazione di handicap come quella del figlio. Lo spettacolo andrà ad Aix en Provence dopo aver debuttato all’Offrande Musicale, il festival creato da David negli Alti Pirenei. Un progetto a cui teniamo moltissimo. Mira a sensibiliz­zare attraverso i testi in scena la problemati­ca dei portatori di handicap, il lavoro da fare sull’inclusione nella società. Il teatro è sogno, è magia. Ma ha anche la funzione di migliore la vita».

 ?? ?? Chiara Muti in Natura viva di Marco Betta al Teatro Goldoni di Firenze nel 2010. Nella pagina accanto in un ritratto scattato durante le prove di Guillaume Tell nei Laboratori Ansaldo della Scala
Chiara Muti in Natura viva di Marco Betta al Teatro Goldoni di Firenze nel 2010. Nella pagina accanto in un ritratto scattato durante le prove di Guillaume Tell nei Laboratori Ansaldo della Scala
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