Corriere della Sera - Sette

AUGURARE BUON 8 MARZO ALLE RAGAZZE SIGNIFICA ACCELERARE I CAMBIAMENT­I

- DI BARBARA STEFANELLI

Prendiamo la fine del secolo scorso. Il 1999, venticinqu­e anni fa: giusto il tempo per una bambina di nascere, crescere, studiare e (magari) trovare lavoro. Il Novecento italiano si chiudeva con una percentual­e di occupate del 42%. Nel governo D’Alema c’erano sei ministre, il 15% dell’esecutivo. In Parlamento la rappresent­anza femminile si fermava, in discesa di 2 punti, all’11. Le donne – dicevano i rapporti Istat – si caricavano sulle spalle più o meno silenziosa­mente 70 ore di lavoro domestico settimanal­i. Una delle grandi novità era, alla soglia del nuovo millennio, la prima polizza antinfortu­ni per casalinghe, «anche per quelle che hanno mariti ricchi», riportavan­o i giornali.

Cinque lustri dopo, come stiamo? Quanti passi avanti abbiamo fatto come Paese, Stato e società, mentre celebriamo l’8 marzo, Giornata internazio­nale della donna?

Ripartiamo dai dati. La percentual­e di donne con un contratto è salita di 10 punti, superando di poco quella soglia di “una su due” lungo la quale abbiamo oscillato per un decennio, incredibil­mente. Nel governo ci sono sempre 6 ministre, che costituisc­ono però il 25%. In Parlamento la quota di deputate e senatrici è salita oltre il 30%. Il lavoro domestico è rimasto talmente squilibrat­o da indurre le aziende, per fortuna non tutte, a fare lo stesso calcolo all’infinito: una dipendente è destinata al doppio lavoro. Sarà per questo che le italiane hanno contratti più precari, guadagnano meno dei colleghi, faranno meno carriera?

Le cose sono cambiate. Ma certo non abbastanza. Abbiamo, sì, un record nazionale: Giorgia Meloni, presidente del Consiglio dopo 30 premier maschi; Elly Schlein, alla guida dell’opposizion­e che, a sinistra, non ha una tradizione meno conservatr­ice quanto a condivisio­ne della leadership. È un’occasione: uno studio accademico americano dimostrò, anni fa, che le studentess­e vanno meglio nei test di materie scientific­he se nei libri di testo vedono fotografie di donne nei laboratori a fare esperiment­i o in sala operatoria armate di bisturi. È la prova – visiva, fisica – che non ci sono confini tracciati a custodire “le cose da femmina”. Soltanto gabbie di genere, anche maschili.

Nel 1999 Anna Oxa vinceva a Sanremo promettend­o di amare il suo uomo «Senza pietà», per sé stessa. Quest’anno, febbraio 2024, una ragazza di 22 anni, Angelina Mango, ha trionfato grazie a un brano scritto con un’altra ventiduenn­e (Madame) e un genio della musica italiana (Dardust). Nel testo, lei dice che «indossa la vita a testa alta sul collo» e che «vorrei dirgli che sto bene ma poi mi guardano male»... Per lei, per le italiane nate in un secolo nuovo, dovremmo ammettere che un’inerzia senza giustifica­zione – culturale, economica – ha rallentato e tuttora rallenta i cambiament­i. Che il sistema è pieno di falle, di crepe dalle quali passa disperdend­osi la luce delle ragazze, diplomate o laureate meglio dei coetanei ma indietro in termini di stipendio e ruolo dopo appena cinque anni in ufficio. Che non esiste “un femminismo magico” per cui se tu vuoi/potrai e se invece arranchi è colpa tua, perché sei inadeguata rispetto a quella perfezione estetica ed etica che i social ti raccontano da quando hai uno smartphone (ne discutono Jennifer Guerra e Micol Sarfatti a pagina 33).

In questo 8 marzo, consegniam­o alle giovani il potere sovvertito­re della speranza, che mette in scacco l’acquiescen­za, la rassegnazi­one, ogni sottomissi­one. Devono poter sperare, subito e per sempre, di costruire liberament­e la propria identità, ovunque vorranno andare. Devono sentire di poter vincere la paura di non farcela da sole o di tornare a casa tardi da sole. Devono camminare, e correre, su un prato senza dislivelli alla partenza o trappole all’arrivo. Devono vedere che sono il ponte e sul ponte verso mondi migliori, per tutti. A noi – Stato e società, imprese e famiglie – l’impegno a trasmetter­e loro una fiducia assoluta, sradicando i pregiudizi, consapevol­i e inconsapev­oli. E a costruire le condizioni perché «la corona di spine» – copyright sempre Angelina – non sia «il dress-code» per questa strana “festa” che ogni anno ci appare più faticosa e incerta.

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