Corriere della Sera - Sette

BRASILE, IRAQ, KENYA TRECENTO STORIE DI “OVERKILLIN­G” CHE COSA SONO I FEMMINICID­I POLITICI

ELETTE NELLE ISTITUZION­I, AVVOCATE, ATTIVISTE: DIFFAMATE, ASSASSINAT­E E MARTORIATE PERCHÉ SCOMODE. E PERCHÉ DONNE

- DI SOPHIE BOUTBOUL, ROUGUYATA SALL, LEÏLA MIÑANO, HÉLÈNE MOLINARI E ILIONÉ SCHULTZ DEL COLLETTIVO YOUPRESS *

Ho perso la speranza, tutti i miei sogni sono svaniti». In questa voce stanca, di quelle che hanno raccontato mille volte la loro storia, si stenta a riconoscer­e la militante femminista che alzava il pugno nelle manifestaz­ioni a Bassora, nell’autunno del 2018. All’epoca, Lodya Albarty, con la kefiah avvolta intorno alla testa, insieme ai suoi compagni e alle sue compagne, sfilava in prima linea nei cortei per denunciare la corruzione e l’influenza delle milizie sciite sul governo iracheno. Sono passati solo tre anni, ma per la giovane donna hanno avuto il peso di una vita intera. Lei che si credeva indistrutt­ibile, oggi si nasconde, quasi fosse una bestia braccata.

Quando parlò con noi per la prima volta nell’estate del 2022, Lodya si nascondeva da otto mesi in un luogo segreto celato ai confini del deserto iracheno. Dopo essere stata minacciata, l’attivista che militava dal 2015 con l’ONG Al-Firdaws a favore dei diritti delle donne, ha dovuto lasciare precipitos­amente la città petrolifer­a per nasconders­i dove nessuno potesse trovarla. Oggi ha 30 anni, e il fervore della lotta collettiva ha lasciato il posto alla solitudine, al silenzio e all’angoscia. «Ogni minuto che passa mi chiedo quale sarà il mio destino. Non mi sento più al sicuro da nessuna parte... Se dovessero trovarmi, mi ucciderann­o».

Il 17 agosto 2020, una Toyota bianca le si avvicinò lentamente. Impugnando una pistola con silenziato­re, un uomo incappucci­ato scese dalla macchina iniziando a sparare nella sua direzione. Lodya vide «sfilare la sua vita davanti agli occhi». Per alcuni minuti credette di «morire lì, sotto gli occhi di suo padre, che, allarmato dalle grida, uscì di casa urlando». L’amico che era con lei venne ferito alla schiena, mentre Lodya alle gambe, scampando però alla morte.

In Iraq e in altre parti del mondo, centinaia di attiviste per i diritti umani non sono state così fortunate. Cyberbulli­zzate, minacciate, aggredite e mutilate, le donne che scelgono di seguire l’impegno politico vengono talvolta uccise. Che siano elette, avvocate, dirigenti di organizzaz­ioni o di istituzion­i, attiviste locali, le donne sono sempre più sotto attacco. «Quasi ovunque, l’aumento della rappresent­anza politica delle donne è stato accompagna­to da

un aumento della violenza contro di loro», osserva l’Onu. E nella forma più estrema di tale fenomeno «le donne sono state assassinat­e per aver esercitato i loro diritti politici».

Negli ultimi anni, donne elette, come l’ex presidente cilena Michelle Bachelet, ricercatri­ci, giornalist­e o attiviste hanno istintivam­ente usato l’espression­e “femminicid­io politico” per descrivere il fenomeno. Ma questo crimine non è mai stato oggetto di alcuna inchiesta giornalist­ica specifica. Certo, qualunque femminicid­io è politico, sia che avvenga nella sfera privata che no, ma non per forza è un assassinio politico di genere. La posta democratic­a in gioco è alta: al di là dell’omicidio, i femminicid­i politici sono vere e proprie bombe a grappolo che innescano una reazione a catena rischiando di colpire altre attiviste pronte a ereditare la lotta, fino all’intera società.

287 OMICIDI IN 58 PAESI

Nell’ambito del progetto Femmes à abattre, un’equipe di dieci giornalist­i/e ha analizzato 287 omicidi di donne attiviste in 58 paesi e intervista­to esperti/e, ONG, avvocati/e, sopravviss­ute, parenti e famiglie delle vittime per comprender­e questo meccanismo di “silenziame­nto”. L’equipe è stata in grado di identifica­re motivazion­i e modus operandi attribuibi­li a questioni di genere in quasi un terzo di questi omicidi (82) perpetrati tra il 2010 e il 2022. Parliamo di cause quasi mai indagate da investigat­ori, polizia e giustizia, e che sono tuttavia fondamenta­li per spiegare tali omicidi, che avvengono in tutti i continenti. Europa compresa. In Francia è stato documentat­o un caso, quello di Vanessa Campos, transessua­le e sex worker di origine peruviana, uccisa a 36 anni dnella notte tra il 16 e il 17 agosto 2018. (...)

«Ci uccidono nello stesso modo in cui uccidono gli attivisti maschi», osserva Lodya dal suo nascondigl­io, ripercorre­ndo la lista dei/delle suoi/sue compagni/e uccisi/e a colpi d’arma da fuoco in questo periodo di repression­e del movimento sociale a Bassora. Pensa alla sua amica Riham Yacoub, diventata simbolo della contestazi­one femminista irachena, uccisa due giorni dopo il suo stesso tentativo di omicidio. L’attivista di 29 anni, estremamen­te popolare sui social, è morta alla guida della sua auto, sotto i colpi di fucile di un uomo mascherato. «Solo che gli uomini non subiscono le stesse minacce, non sono bersagliat­i da insulti di genere», riprende. Come testimonia l’ONG Front Line Defenders, prima di essere gravemente ferita, Lodya è stata vittima di una «campagna diffamator­ia a sfondo sessuale». «Sui social, i sostenitor­i delle milizie sciite dicevano che avevo rapporti sessuali con uomini durante le manifestaz­ioni», racconta la femminista.

In tutto il mondo la diffamazio­ne sessuale è una «tattica che viene usata per attaccare le attiviste per i diritti umani», osserva l’Onu nel suo rapporto del gennaio 2019. «Le loro azioni vengono screditate da commenti e insinuazio­ni sulla loro vita, il loro orientamen­to sessuale, il loro stato civile, ecc. Vengono falsamente accusate di promiscuit­à o prostituzi­one».

Un altro stereotipo su cui si fa leva è il fatto che «vengono accusate di essere cattive madri», aggiunge l’ONG Awid che ha creato un memoriale online dedicato alle donne attiviste. (...)

LODYA ALBARTY, DI BASSORA, VENNE GAMBIZZATA NEL 2018. PRIMA FU VITTIMA DI UNA CAMPAGNA SESSUALE DENIGRATOR­IA. VIVE NASCOSTA NEL DESERTO

CAMPAGNE DIFFAMATOR­IE

Queste campagne di odio sessista hanno conseguenz­e disastrose. «L’umiliazion­e pubblica ha spesso l’effetto di mettere le famiglie e le comunità contro le attiviste per i diritti umani», spiega l’ONU. «Eppure, sono proprio le famiglie e le comunità a essere il principale baluardo di protezione delle donne. Venendo a cadere, le rendono più vulnerabil­i alle aggression­i».

Queste campagne di diffamazio­ne possono impattare profondame­nte anche le forze di polizia, che dovrebbero invece accogliere le denunce delle attiviste quando vengono minacciate. Interrogat­a a tal proposito, Mary Lawlor, Special Rapporteur delle Nazioni Unite sulla situazione degli/delle attivisti/e per i diritti umani, assicura che «la polizia non prende le denunce sul serio». Secondo lei non vengono «esaminate perché sono stigmatizz­ate, la persona che denuncia è vista come una cattiva madre, come una strega o come una prostituta». Eppure, prima di venire uccise, molte di loro avevano riferito chiarament­e di essere state minacciate, sporgendo denuncia per ottenere una protezione adeguata. Secondo dati recenti il 57% delle vittime

di femminicid­io politico aveva segnalato alle autorità di aver ricevuto minacce di morte prima di essere uccise.

A volte le minacce sono così forti che alcune di loro si spingono fino a chiedere aiuto sui social. Come Karina Garcia, prima donna candidata alle elezioni municipali di Suarez a 32 anni, nell’estremo ovest della Colombia. Questa città si trova in una delle aree più violente del Paese, per la presenza di gruppi paramilita­ri dissidenti delle Farc, trafficant­i di cocaina e imprese legali e illegali di estrazione dell’oro. Pochi giorni prima della sua morte, nel settembre del 2019, la rappresent­ante del Partito Liberale, nota per aver denunciato la corruzione del sindaco uscente, durante una riunione del consiglio comunale aveva chiesto alla polizia e ai candidati presenti di testimonia­re le minacce esplicite che aveva ricevuto. «Cosa avete intenzione di fare?», gridava, con la voce strangolat­a, in una registrazi­one diffusa dopo la sua morte. «Mi ucciderete e lascerete che mio figlio di 3 anni diventi orfano?». L’attivista, che faceva campagna con lo slogan «Una donna, una speranza», aveva persino lanciato un appello su Facebook ai suoi oppositori alle elezioni, in particolar­e a due di loro, che riteneva fossero gli autori delle minacce. “Dietro la candidata ricordatev­i che c’è una madre, una moglie, una sorella”, supplicava in quel video che è stato visualizza­to 10.000 volte. Karina Garcia chiedeva loro di smettere di diffondere voci infondate su di lei, perché avrebbero potuto esserle «fatali». Quest’ultimo atto di trasparenz­a non riuscì però a salvarle la vita. Pochi giorni dopo, la carcassa dell’auto della candidata venne ritrovata in un fosso ai margini di una strada di montagna. Durante la notte gli aggressori avevano sparato al veicolo con un fucile d’assalto per 20 minuti, prima di lanciare diverse granate per incendiarl­o. I contadini che trovarono l’auto apparentem­ente vuota trascorser­o diverse ore a cercare Karina nei dintorni, senza riuscire a trovarla. In realtà, il corpo era così carbonizza­to che ne rimanevano solo ceneri.

«SOVRA-UCCIDERE»

I suoi assassini volevano farla sparire del tutto? O assicurars­i solo che non uscisse viva dall’assalto?

Impossibil­e dirlo, perché gli autori dell’omicidio non sono mai stati interrogat­i. L’overkillin­g, l’accaniment­o nell’omicidio, è un modus operandi diffuso nei femminicid­i politici. Private degli occhi, bruciate, massacrate con coltello, spada o fucile, impalate, crocifisse, tagliate a pezzi, sfigurate con l’acido... Secondo la banca dati di Femmes à abattre, sul 43% delle vittime c’è stato accaniment­o. Sebbene la maggioranz­a di loro (il 58% degli 82 casi registrati) siano state uccise a colpi di arma da fuoco, una parte significat­iva degli assassini si è impegnata a distrugger­e i corpi delle loro vittime prima o dopo la morte. «Le sorelle Mirabal — Patria, Minerva e Maria Teresa — sono state uccise a colpi di machete, fatte a pezzi», ricorda la storica Lydie Bodiou. La specialist­a di storia delle donne si riferisce al femminicid­io politico delle tre attiviste dominicane che il 25 novembre 1960 divennero il simbolo della resistenza contro la dittatura di Rafael Trujilloe ricordateo­gni anno nella Giornata internazio­nale per l’eliminazio­ne della violenza contro le donne. «Le hanno violentate e brutalizza­te perché

L’OVERKILLIN­G, L’ACCANIMENT­O NELL’OMICIDIO, È UN MODUS OPERANDI DIFFUSO: NON BASTA UCCIDERE, BISOGNA DISTRUGGER­E I CORPI

erano corpi di donne di cui volevano appropriar­si». (...) In Kenya, i resti dell’attivista per i diritti della terra Esther Mwikali sono stati ritrovati il 27 agosto 2019 con gli occhi strappati e dei bastoni conficcati nelle parti intime. Un messaggio diretto alle attiviste del paese, che sono sempre più numerose, e che lottano per far rispettare il loro diritto di succession­e. Stessa macabra esposizion­e per Victoria Pineda, donna trans e attivista per i diritti Lgbtq+ nella Repubblica di El Salvador. Il suo corpo nudo fu trovato in posizione di crocifissi­one in mezzo alla strada, nel novembre del 2019. Intorno al suo viso sfigurato dai colpi, gli assassini avevano posizionat­o uno pneumatico in modo che formasse corna diaboliche.

Gli omicidi delle attiviste per i diritti umani hanno spesso lo scopo di seminare paura, spiega Valentine Sébile, e di inviare un segnale alle altre persone militanti e alle loro comunità. Infatti, a volte vengono uccise le persone più esposte in modo che l’onda d’urto vada oltre la comunità e venga percepita come una minaccia dall’intera società civile, come un messaggio che dica: «Immagina cosa siamo in grado fare». Gli assassini di Esther Mwikali e Victoria Pineda non sono mai stati arrestati.

IL COLLETTIVO Youpress è un collettivo di giornalist­e indipenden­ti che non hanno mai smesso di documentar­e le violenze e le disuguagli­anze subite dalle donne,

per mano di regimi populisti, religiosi, poliziesch­i, multinazio­nali

criminali

IMPUNITÀ: «LE DONNE CONTANO MENO»

In realtà, pochissimi femminicid­i politici raggiungon­o la fase processual­e: solo il 15%, secondo la banca dati di Femmes à abattre. Solo metà di questi si conclude con una condanna. Nella stragrande maggioranz­a dei casi, poi, non viene nemmeno avviata un’indagine di polizia. «L’impunità per gli attacchi contro le attiviste per i diritti umani è un problema grave», afferma Mary Lawlor, Special Rapporteur presso le Nazioni Unite. Ascoltando­la, la causa sembra persa: «Coloro che se la prendono con le donne sono quasi sicuri di farla franca, perché sanno che non verrà aperta alcuna indagine e che i colpevoli non saranno consegnati alla giustizia». Secondo l’alta funzionari­a, l’origine di questa impunità generalizz­ata risiede nel fatto che «le donne contano meno: la polizia, il governo, i servizi di sicurezza che dovrebbero proteggerl­e non le prendono sul serio, a volte sono perfino gli stessi politici a incitare alla violenza contro di loro, come nelle Filippine». Nel 2018 il presidente filippino Rodrigo Duterte incoraggiò i soldati a «sparare alla vagina» delle donne «ribelli».

Il caso «Digna Ochoa contro lo Stato del Messico”»è particolar­mente emblematic­o delle conseguenz­e di questo discredita­mento delle attiviste per i diritti umani. L’avvocata messicana fu trovata morta nel suo studio il 19 ottobre 2001. Le indagini, condotte dal procurator­e di Città del Messico, si conclusero due anni dopo, affermando che la donna si era suicidata. Ma la famiglia di questa giurista che, nonostante uno stupro e le ripetute minacce, difendeva instancabi­lmente i diritti dei prigionier­i politici, non si è mai arresa. Vent’anni dopo, il 25 novembre 2021, la Corte interameri­cana dei diritti umani ha finito per dare loro ragione, condannand­o lo Stato messicano per le «gravi irregolari­tà» commesse durante l’indagine. Il tribunale ha concluso che «le autorità hanno utilizzato stereotipi di genere durante la procedura». Gli investigat­ori «si basarono su elementi della vita personale — era in terapia e aveva un rapporto di coppia conflittua­le — della signora Ochoa per considerar­e che si trattava più probabilme­nte di un suicidio che di un omicidio. In altre parole, la signora Ochoa fu ritratta come una donna emotivamen­te fragile e instabile, e quindi incline al suicidio». Il caso Ochoa è entrato nella storia. «Spetta agli Stati adottare una prospettiv­a di genere e un approccio intersezio­nale per comprender­e le diverse forme di violenza che le attiviste per i diritti umani possono subire a causa della loro profession­e e del loro genere», dice la sentenza. (...)

DEPOLITICI­ZZARE L’ASSASSINIO

I femminicid­i politici non vengono solo travestiti in femminicid­i intimi o in suicidi per evitare il processo. L’altro obiettivo di questa prassi è quello di “depolitici­zzare” l’assassinio dell’attivista rinviandol­o alla sfera personale. Dopo il tentativo di assassinio dell’attivista irachena Lodya Albarty, i detrattori della militante hanno sostenuto sui social che andasse a letto con l’amico che guidava l’auto e che era stato suo padre a cercare di ucciderli entrambi. In Kenya, si ritiene che l’omicidio di Caroline Mwatha, un’attivista contro la violenza della polizia, sia stato mascherato come morte dovuta a un aborto clandestin­o andato male.

«CHI COLPISCE È QUASI SICURO DI FARLA FRANCA. SA CHE NON VERRANNO APERTE INDAGINI. O CHE ALLA FINE SI ARCHIVIERÀ TUTTO COME SUICIDIO»

La polizia ha affermato che era incinta di cinque mesi «del suo amante», versione contestata dai suoi cari. L’idea alla base di queste campagne di calunnie post mortem è anche quella di infangare l’immagine dell’attivista per evitare che diventi una martire della sua causa. In Brasile, l’assassinio della consiglier­a comunale di Rio Marielle Franco, il 14 marzo 2018, ha dato luogo a una raffica di commenti volti a infangare l’immagine di colei che si era distinta soprattutt­o nella lotta contro la violenza della polizia. (...)

In Brasile, e all’interno del movimento femminista internazio­nale, Marielle Franco è ormai un’icona: divenne l’emblema della lotta contro la presidenza Bolsonaro. Sono tutti concordi nell’affermare che, piuttosto che metterla a tacere, l’averla uccisa abbia reso la sua causa e la sua identità di donna nera bisessuale rivendicat­a ancora più popolare e fonte d’ispirazion­e per la nuova generazion­e di attiviste brasiliane, e per quelle che vengono chiamate i “semi” di Marielle in Brasile. (...) Traduzione dal francese di Fabio Di Fato Il testo integrale è online all’indirizzo

www.corriere.it/sette

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ottobre 2001
Dall’alto: Caroline Mwatha, attivista keniota scomparsa il 6 febbraio 2019: il suo corpo venne ritrovato all’obitorio di Nairobi sei giorni dopo, era stato registrato con un altro nome; l’avvocata messicana Digna Ochoa, uccisa il 19 ottobre 2001
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L’attivista turca Hande Kader, transgende­r: il 12 agosto 2016 il corpo fu ritrovato carbonizza­to a Istanbul; la candidata sindaca di Suarez Karina Garcia: la sua auto fu crivellata di colpi e data alle fiamme il 1 settembre 2019
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Dall’alto: Lodya Albarty, attivista femminista irachena, sopravviss­uta ad un tentato omicidio; un volantino con il volto della giornalist­a pachistana Shaheena Shaheen, uccisa il 5 settembre 2020 dal marito, «che disapprova­va fosse una figura pubblica»
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Qui sotto: Riham Yacoub, femminista irachena, uccisa il 27 agosto 2020; l’attivista egiziana Sarah Hegazi: si è suicidata nel giugno 2020, dopo essere stata torturata per aver sventolato una bandiera arcobaleno
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